L’incontro con una casa famiglia
Fremo, non vedo l’ora di arrivare in teatro, voglio familiarizzare col palco. Devo ancora conoscere Antonio, il socio di Marta, poi vorrei fare i puntamenti delle luci e mettermi subito a prova-re; magari riesco a fare due prove, due filate: una subito e un’altra dopo pranzo, così vado in scena un poco più sicuro. Sì, perché bisogna provare, provare e provare; il teatro non è il cinema, non esiste “stop”, esisti solo tu, il pubblico e tutte le tue paure… ma quelle artistiche resteranno sempre le più emozionanti.
Parcheggiamo la macchina proprio davanti al teatro: ad accoglierci c’è Antonio che, appena mi vede, mi tende la mano e inizia a farmi una marea di complimenti. Dalle parole che gli escono dalla bocca sembra veramente che abbia seguito con cura tutte le mie opere. Molti invece le leggono su Wikipedia, me ne accorgo dai complimenti poco argomentati che mi fanno. Stringo forte la sua mano, mi piace, mi gratifica stare di fronte a una persona che mi stima artisticamente.
«Marta, che facciamo allora? Andiamo in teatro o passiamo a salutare i ragazzi?», interviene Giorgio.
«No, passiamo dai ragazzi! Vieni, Sasà! Devi conoscere delle persone che oggi cucineranno per noi».
«Marta, ma a me serve provare, ho bisogno di andare in teatro! Ti prego! Non mi sento prepara-to e non abbiamo giorni, ma solo poche ore! Questa sera sarò solo in scena davanti al pubblico e non voglio sfigurare, non me lo perdonerei».
[…]
«Dai Sasà, vieni! È qui a fianco, ti prometto che facciamo loro un saluto veloce e poi andiamo in teatro a fare le prove. Sono dei ragazzi di una casa famiglia a cui voglio bene e avevo promesso loro che, appena fossi arrivata, sarei passata a trovarli. Sanno pure che ci sei tu, conoscono la tua storia e ti vogliono conoscere!».
Guardo Marta con un’aria di disappunto: mi sono fidato troppo senza chiederle niente, e lei prima mi fa dormire in un cimitero, poi mi porta in una casa famiglia… Mi auguro che il teatro non riservi altre sorprese: magari salta fuori che in passato era un vecchio convento sconsacrato! Io non sono mai entrato in una casa famiglia ma già il nome non mi piace… perché la chiamano “casa famiglia”? Lì dentro non ci sono le mamme con i papà e i figli ma solo giovani disagiati, emarginati, abbandonati. Però devo dire che “casa famiglia” ha un suo fascino… un po’ come la “Caritas”, un nome che di fatto difende ma, per come suona, sembra quasi che offenda! Io gli avrei dato un altro nome per offrire pasto ai poveri: è così bello dire: «Buon appetito», «Buona cena» o «Buon pranzo», «Accomodatevi», «Sedetevi con noi»…
[…]
Spengo la sigaretta ed entro in “casa famiglia”. Saluto le persone con la mano mentre i miei occhi cercano i ragazzi, ed eccoli che si fanno avanti da soli. In maggioranza sono di colore, il più grande avrà diciassette anni, ci sono anche due italiani, ragazzi del posto, che vivono stabilmente in questa casa. Mentre guardo gli ospiti stranieri mi faccio mille domande: «perché sono qui? sono stati mandati qui dalle stesse famiglie? ce l’hanno una famiglia?». Criminali non lo sono, altrimenti dovrebbero trovarsi in carcere e non qua. Ma sì, sono ragazzi abbandonati dalle loro famiglie, se una famiglia c’è.
Inizio a sorridergli per cercare la loro complicità; so che non sarà facile, ma mi piacerebbe conoscere le loro verità così nascoste, così protette da loro stessi che sembra impossibile avvicinarglisi.
da Giù le maschere di Salvatore Striano, pp. 96, € 12,00