Lincoln, oggi
Oltre due ore. Tanto ci impiega Steven Spielberg per raccontarci il suo Lincoln. Un’opera di taglio squisitamente teatrale, dove le battaglie della Guerra di Secessione – di cui rapide inquadrature ci mostrano l’orrore e l’odore – si svolgono soprattutto in parlamento, ed in famiglia. Al chiuso.
Film politico più che evocativo, anche se la mano della retorica prende ogni tanto il regista, in un modo che al pubblico europeo – e italiano – può apparire un poco stancante. Ma sicuramente non a quello americano, per cui parole come onore, e patria hanno ancora molto valore. E forse, i n questa che è una celebrazione degli States (la musica di tono trionfalistico, anche se in sordina), attraverso un personaggio come Lincoln e la sua lotta per l’abolizione della schiavitù, è sotteso un messaggio attuale al mondo: l’America si ripropone, guardando la sua storia,come campione della libertà di chiunque, visto che ha fatto l’esperienza di 600mila morti durante la Secessione (tanti quanti ne abbiamo avuto noi italiani nella prima guerra mondiale…). Un trauma per gli States, che da allora la guerra hanno preferito farla fuori dalle loro frontiere, in una autodifesa costante della propria identità e sicurezza.
Il pregio del film, che si svolge quasi sempre all’interno con una luce volutamente sporca, è quello di indagare le sottili trame – e astuzie, e compromessi – della politica, ossia la politica che si svolge fuori delle aule e delle stanze, quella dei rapporti umani, opachi spesso e conflittuali, che poi orientano le scelte di campo. Ma non solo. La vita familiare, i complessi rapporti tra Lincoln e la moglie caratteriale, la perdita di un figlio, la ribellione di un altro. Ne esce il ritratto di un uomo forte, tenero con i figli, paziente con la moglie, capace di sopportare dolori profondi e di non demordere mai dal suo ideale. E’ forse questa la parte più riuscita del film, che prende una dimensione tragica anche, venata di una tristezza virile e sorretta alla fine da una fede in Dio che l’ebreo Spielberg sottolinea. Interessanti le lunghe scene del dibattito parlamentare dove non si risparmiano le offese personali, le accuse e i toni aggressivi in un’aria di tensione che la fotografia color seppia evidenzia, trasportandole dal passato alla realtà attuale.
Certo un film del genere non avrebbe retto senza la mano esperta di Spielberg e la recitazione superiore di Daniel Day-Lewis. Dall’andatura dinoccolata, ai primi piani di un volto espressivo e tenero, scherzoso e astuto, dai gesti parchi ai rari scoppi d’ira, l’attore ha dato vita, anima e corpo a Lincoln, presentandone un ritratto reale e ideale al tempo stesso. Certo, è stato contornato da una schiera di colleghi eccezionali, fra cui Sally Field nei panni della difficile moglie, Tommy Lee Jones, memorabile vecchio acido e rude.
Composto il finale dell’assassinio del presidente. Nessuna scena, ma solo una morte sul letto, quasi in posa, come in una tela ottocentesca. Del resto, i costumi sono perfetti, come fossero tante fotografie dell’epoca. Forse una minor lunghezza gioverebbe al film. Ma Spielberg si è cimentato in un dramma storico con quel senso dell’epos, molto americano nel sottolineare l’individualità, per cui l’eroe giganteggia. Come fosse un personaggio antico, tragico e fragile insieme. Con il senso forte della storia, di cui l’uomo vuol essere ad ogni costo, protagonista.