L’incognita del referendum costituzionale

Il 20 e il 21 settembre si voterà, tra l'altro, per il referendum che intende ridurre il numero dei parlamentari. Pubblichiamo l'articolo apparso sul numero di agosto della rivista Città Nuova, a cui seguiranno approfondimenti e opinioni sulle varie posizioni politiche.
Referendum Foto Valerio Portelli/LaPresse

Salvo imprevisti, gli italiani saranno invitati ad andare a votare per il referendum negli ultimi giorni dell’estate, il 20 e 21 settembre 2020, per rispondere Sì o No alla legge che riduce di un 36,5% il numero dei parlamentari, da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori.

I precedenti referendum costituzionali hanno visto prevalere il No alle riforme proposte da Berlusconi nel 2006 e da Renzi nel 2016. Stavolta i sondaggi prevedono l’80% di favorevoli alla riforma che è parte dell’accordo stipulato tra i partiti di centrosinistra e i pentastellati per varare il governo Conte 2. «Abbiamo ascoltato per oltre 30 anni i partiti promettere invano di ridurre i parlamentari. Il M5S è passato ai fatti», afferma sul “Blog delle Stelle” Riccardo Fraccaro, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, facendo presente che «è stato un lavoro complesso e faticoso ma, dopo 4 letture nei 2 rami del Parlamento, abbiamo mantenuto la nostra promessa.Ora sul taglio dei parlamentari manca solo il voto dei cittadini, per noi la consultazione popolare è sacrosanta, dovrete essere voi a decidere se volete che l’Italia abbia ancora il più alto numero di rappresentanti direttamente eletti d’Europa o se invece il nostro Parlamento dovrà diventare più moderno, snello ed efficiente».

Il calo di consensi del M5S può essere il segnale di un dissenso crescente verso tale tesi, che il politologo Paolo Pombeni, ad esempio, definisce una “resa vergognosa al populismo” antiparlamentare con tagli fatti “a casaccio” senza «garantire una equa distribuzione della rappresentanza dei territori».

L’intenzione di ridurre il numero dei parlamentari, come conferma il dossier n. 71/2019 del servizio studi del Senato, è, in effetti, una costante nel dibattito politico e parlamentare a partire dalla commissione bicamerale “Bozzi” del 1983, per arrivare al gruppo di lavoro costituito dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel 2013, fino alla più recente riforma del 2016, bocciata dal referendum, che intendeva ridurre il numero e il criterio di rappresentatività dei senatori per concentrare i poteri decisionali sulla Camera.

A favore del superamento del bicameralismo perfetto italiano (entrambe le Camere sono elette direttamente e hanno i medesimi poteri), si erano schierati diversi settori della classe dirigente e i maggiori organi di stampa. Ma, alla prova delle urne, si coalizzò un fronte contrario che andava dalla destra al M5S in forte ascesa, ma anche i partiti di sinistra e dissidenti del Pd.

Il citato dossier del servizio studi del Senato ha il pregio di esporre la fotografia della situazione attuale e di quella ipotizzabile in caso di riforma, col numero di parlamentari italiani a confronto con altri Stati europei. Permettendo, così, di farsi un’idea del numero dei parlamentari e della proporzione tra eletti ed elettori. Ad ogni modo, occorre tener presente comunque che la “Camera alta” di ogni Paese prevede modalità di elezione e competenze diverse dal nostro Senato. Si pensi ai 792 seggi, alcuni ancora ereditari, della britannica Camera dei Lord.

Il taglio del numero dei parlamentari inteso come riduzione del costo pubblico si è rivelato, progressivamente, un argomento non decisivo. Intorno ai 50 milioni di euro l’anno, secondo alcuni, o il doppio secondo il M5S. Ma anche un risparmio così ridotto, realizzabile con altri interventi in bilancio, può aver senso se, come afferma Giampiero Di Plinio, professore di diritto pubblico dell’Università di Chieti e Pescara, la riduzione del numero dei parlamentari indurrà i partiti a selezionare i migliori candidati e a porre un freno alla «pervicacia delle lobby».

Tesi opposta a quella di altri esperti ed esponenti della società civile (dal giurista Massimo Villone a Luigi Ciotti), che hanno lanciato un manifesto per contestare la «grande menzogna», di una riforma costituzionale che non punirebbe affatto la casta, che anzi diventerebbe più elitaria, ma «i cittadini che vedranno diminuita la possibilità di eleggere un “proprio” rappresentante» con la conseguenza di affidare «un potere sempre maggiore a chi non ne risponde direttamente agli elettori». Un esito fatale, secondo tale tesi, se si tiene presente il funzionamento dell’attuale legge elettorale, il Rosatellum, che consegna le candidature ai vertici dei partiti.

Non è remota la possibilità di andare di nuovo al voto per un’improvvisa crisi di governo. Ed è già in vigore una legge (la n.51/2019) che contiene una delega al governo «per la determinazione dei collegi uninominali e plurinominali per le elezioni» in caso di entrata in vigore del taglio del numero dei parlamentari.

Ad ogni modo, l’attuale maggioranza si è impegnata a far approvare una nuova legge elettorale proporzionale, temperata dalla soglia di sbarramento del 5%. Ma si tratta di un testo da definire nei dettagli non secondari, quali la possibilità di reintrodurre il voto di preferenza.

Nel campo del centrodestra l’ex ministro delle Riforme istituzionali, il senatore Gaetano Quagliarello, nel 2016, propose una riforma, assieme a Massimo D’Alema, allora nel Pd, che prevedeva la riduzione del numero dei parlamentari (400 deputati e 200 senatori) e ora spera che la vittoria del Sì rappresenti «il presupposto per una più ambiziosa riforma del parlamentarismo», agevolando il lavoro comune tra Senato e Camera. Per Quagliariello è stato determinante aver impedito l’approvazione del disegno complessivo di riforma del M5S che, in effetti, prevedeva anche l’introduzione del referendum propositivo di iniziativa popolare che, a suo parere, avrebbe dato il colpo di grazia alla centralità del Parlamento a favore di «forme un po’ sconclusionate di democrazia diretta».

Ciò che sembra un discorso astratto sulle riforme istituzionali scatena, quindi, forti tensioni perché si avverte che è in gioco l’architettura del sistema democratico, le sue fondamenta, con effetti sull’esercizio del potere effettivo e lo spazio reale che resta alla rappresentatività delle diverse componenti e culture della società.

Il dibattito si accenderà negli ultimi giorni, in prossimità di quell’autunno in cui si vuole esorcizzare il timore del ritorno del contagio del virus e in molti prevedono il manifestarsi di quella “bomba sociale” che cova dentro le conseguenze, causa pandemia, della più grave crisi economica dal dopoguerra. Molto dipenderà dagli esiti delle trattative a livello europeo, tra piani di rilancio, riforme strutturali e andamento del debito pubblico.

È perciò decisivo approfondire la questione del referendum che, tra l’altro, sarà valido a prescindere dal numero di persone che si recheranno alle urne. Non si può far fallire, come altri tipi di referendum, invitando a disertare i seggi elettorali. Seggi impegnati anche da alcune significative competizioni regionali e comunali, che potranno avere conseguenze a livello nazionale. Un motivo in più per continuare il discorso e il dialogo su cittanuova.it.

Sull’argomento leggi anche: Referendum sul taglio dei parlamentari, un serio confronto

 

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