L’incendio di un pezzo di Internet

Tutti noi, o quasi, pensiamo che la rete del web sia immateriale. Nulla di più falso. Tutti i dati sono “materiali”: prova ne sia l’incendio che ha colpito un’azienda di Strasburgo…

Per lavoro, collaboro con un paio di aziende editoriali che dal 9 marzo hanno dei grossi problemi a pubblicare i propri siti online e a svolgere tante altre attività. Tutto ciò per colpa di un incendio scoppiato nella notte tra 9 e 10 marzo, che ha mandato in cenere parte del campus di Strasburgo di una società, la Ovh, che è tra i principali fornitori europei di immagazzinamento dei dati digitali di Internet. Un esercito di pompieri ha spento l’incendio, che così non ha fatto vittime umane, ma che comunque ha incenerito una buona parte dei dati di un milione e mezzo di aziende-clienti nel mondo. La Ovh ha sede a Roubaix, nel nord della Francia, e possiede 32 data center in 19 Paesi e mezzo miliardo di euro di profitti all’anno. Milioni di computer sono sistemati in questi 32 centri, ognuno dei quali è suddiviso “virtualmente” in due o più server.

Senza entrare nell’annosa questione del costo “ecologico” per l’equilibrio del creato – gli scienziati in effetti dicono che i computer che ogni giorno fanno ormai girare il mondo consumano in energia, e quindi in termini di consumo di risorse della Terra, più di quanto ogni giorno non facessero, prima della pandemia, tutti gli aerei in giro per il mondo in un dato momento −, ho potuto costatare di persona quanto l’incendio di un semplice sito industriale possa ormai bloccare le attività di una quantità impressionante di ditte e di persone che vi lavorano. Tanto più se pensiamo che l’Ovh era ed è all’avanguardia nei criteri di conservazione dei dati, o almeno pretendeva di esserlo.

Danni come la perdita di dati anagrafici dei clienti, l’oscuramento totale dei siti web e delle pagine sui social, l’interruzione di milioni di trattazioni commerciali sono difficilmente calcolabili. Ma non daranno diritto, almeno così sembra, ad adeguati rimborsi, perché i contratti sottoscritti dai clienti scaricano completamente o quasi la Ovh dalle responsabilità di una qualsiasi ditta fornitrice di servizi a proposito della perdita di dati, dell’interruzione del servizio, del ritardo nel restauro dei dati o nella velocità dei servizi. Tutte queste clausole che salvano la Ovh sono scritte in caratteri minuscoli in un contratto che la stragrande maggioranza dei clienti non ha mai visto nei fatti, perché ha dichiarato con un clic di aver «letto, accettato e sottoscritto» tutto il contratto. Il quale è disponibile sul web, ma per vederlo bisogna fare altri clic. E si sa quanto siamo pigri nel controllare i contratti che firmiamo ogni giorno sul web.

l'incendio

Insomma, l’incendio dell’Ovh è una Waterloo per una marea di imprese, o piuttosto una Stalingrado, nel senso che tali imprese sono in questi giorni costrette a lavorare giorno e notte per ritrovare in qualche modo i back up, cioè i dati salvati su vari supporti nei diversi computer o cassetti delle singole imprese. Una guerra interminabile in condizioni difficili, come a Stalingrado appunto, non una battaglia definitivamente persa, come a Waterloo; una guerra necessaria per rimettere in piedi i data base di ospedali e ambulatori, per riattivare le liste dei clienti con i relativi ordini di una ditta di ceramiche, o di commercio di frutta e verdura, di un hotel o di una biblioteca comunale…

Tutto ciò perché l’incendio ha distrutto una… nuvola. In effetti la Ovh è una azienda che offre servizi di clouding (in inglese cloud vuol dire nuvola, e meno male che Draghi ci ha invitato a usare l’italiano quando ci sono le parole giuste…). L’Ovh ha portato un milione e mezzo di aziende, o meglio miliardi e miliardi di dati di un milione e mezzo di aziende nella nuvola, nel nulla, nel vapore acqueo del digitale. Inafferrabile apparentemente. Salvo che dal fuoco.

A questo proposito, mi torna in mente qualche rudimento di lingua ebraica, nella quale il vapore acqueo, la nuvola, è chiamata hebel. Guarda caso, siccome la lingua di Abramo ed Isacco, così come l’arabo, è una lingua “concreta”, che non ha tante parole astratte, come invece le nostre lingue moderne hanno, si traduce con hebel anche la parola “vanità”. «Vanità delle vanità» è tradotto hebel di hebel. I dati di Internet sono vanità, allora? Viene da sorridere al pensare quanta vacuità, quante parole al vento vengano dette e scritte in ogni momento su Internet. Hebel, appunto. Ma i dati sono anche “materiali”, un’infinita quantità di uno e di zero in linguaggio binario. Che possono essere distrutti dal fuoco, anche se sono nelle nuvole. Di che meditare.

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