L’incendio di Roma raccontato da Lucio Verginio Rufo
Per raccontare l’incendio di Roma del 64, noi oggi, dal nostro punto di vista posto in un lontano futuro, ci voltiamo indietro a guardare verso un lontano passato: è la prospettiva del discendente. Ci si può chiedere se sia possibile raccontare quello stesso fatto dalla prospettiva dell’antenato o da quella del contemporaneo. […]
Questo libro presta la voce a un grande uomo che ha vissuto al tempo dell’incendio di Roma. Lucio Verginio Rufo nacque infatti nel 14, lo stesso anno della morte del fondatore dell’impero Ottaviano Augusto, e morì a 83 anni nel 97, al tempo di Marco Cocceio Nerva, l’imperatore che inaugurò il secolo d’oro di Roma, quello di Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio.
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Di Rufo mi ha incuriosito l’intelligente capacità di valutare il suo tempo. Rufo legge e valorizza il passato della storia romana, è al servizio del presente in cui vive e sa sperare una futura gloria di Roma. Al contempo, non è un aristocratico, non appartiene a un’antica famiglia nobile, ma è un cavaliere fatto senatore da Claudio, di origini comasche, figlio o nipote di provinciali. Della sua carriera pubblica non si conosce quasi nulla fino al suo primo consolato del 63, e che a un certo punto prima di quella data fu probabilmente questore a Smirne, nell’attuale Turchia.
Il fatto importante della sua storia, dopo la nomina a governatore militare della provincia della Germania superiore, lo raccontano i contemporanei Tacito e Plinio jr.: sconfitto Giulio Vindice nella battaglia di Besançon, nel maggio del 68, Rufo rifiutò la porpora imperiale che le legioni germaniche gli volevano attribuire per acclamazione. Inoltre, nell’anno dei quattro imperatori seguito alla morte di Nerone, riconobbe Galba, fu console suffetto sotto Otone e si recò a Pavia da Vitellio, che lo salvò da quegli stessi legionari che lo avevano acclamato e che Rufo aveva deluso. Sotto i Flavi si ritirò a vita privata e fu ripescato alla vita pubblica, ormai ultraottantenne, da Nerva, che lo volle console accanto a sé nel 96 dopo l’uccisione e la damnatio memoriae dell’imperatore Domiziano.
Questi gli elementi nudi e crudi che ci sono pervenuti sulla vita di Rufo, con in più una notizia che ha acceso in me la curiosità e la fantasia: Tacito e Plinio jr. rivelano nei loro scritti una stima e un affetto straordinari per Rufo. Plinio jr. è in modo particolare la fonte di questa rivelazione, e ne ha ben motivo: nel 70, alla morte improvvisa di suo padre Lucio Cecilio, Plinio jr., che a quel tempo si chiamava Gaio Cecilio Secondo, aveva circa 7 anni. Verrà adottato più tardi dallo zio materno, il grande naturalista e futuro ammiraglio Plinio il Vecchio, dal quale assumerà il nome Plinio, ma intanto viene accolto dall’amico di suo padre, che diventa il suo tutore: Lucio Verginio Rufo. Con molta probabilità, quindi, se il giovane Plinio jr. ha avuto la possibilità di crescere nel migliore dei modi e diventare Plinio il Giovane, è stato anche e soprattutto grazie a Rufo. […]
Al tempo dell’incendio di Roma, nel 64, Plinio jr. aveva meno di 2 anni, ma Rufo ne aveva 50 e aveva appena concluso il suo anno di consolato. Era quindi un uomo maturo e al culmine della carriera. Come visse e percepì il dramma dell’incendio in realtà non lo sappiamo, ma dai frammenti di notizie che ci sono pervenuti si può tentare una lettura in contemporanea delle vicende connesse con l’incendio. È quello che ho cercato di fare con questo libro. Naturalmente in una prospettiva letteraria, non certo in quella di un saggio storico, tenendo comunque ben presenti i dati storici, anche se talora contradditori.
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Il senatore e consolare Lucio Verginio Rufo è calato in questa realtà. La lettura della contemporaneità nel “racconto di Rufo” è sintetizzata dal titolo del libro: Roma brucia! Bruciano nel fuoco la città e i cristiani, ma bruciano in senso metaforico anche i congiurati del gruppo di Pisone, i quattro imperatori che si susseguono con la morte di Nerone e in certo modo anche un’idea di impero troppo dinastica. Ma la visione di Rufo è capace di andare oltre e di rimanere coerente alla sua speranza. Nelle vicende che gli vengono qui attribuite, questa dimensione si fonda e viene manifestata, fra l’altro, anche dalla sua adesione al culto di Mitra. In realtà non abbiamo nessuna informazione in questo senso dalle fonti, ma proprio nel I secolo la versione romanizzata di un antico culto iranico stava prendendo piede particolarmente fra i militari. Un culto misterico segnato da gradi di conoscenza spirituale, esigente sotto il profilo morale, concentrato sul sacrificio. In un mondo romano alla ricerca di valori e motivazioni, il vecchio pantheon stava ormai stretto a molti. Mitra non fu la sola divinità di questo tipo che all’epoca trovò sempre più seguaci, basti pensare al culto di Iside e alle stesse istanze poste dal messia cristiano.
Un’ultima considerazione. Ho messo due donne accanto a Rufo: una, Terenzia, compare nel momento in cui viene trovata morta; l’altra, Anastasia, per annunciare il proprio martirio. Ci sono e non ci sono, ma lasciano almeno intravedere una realtà femminile che altrimenti sarebbe rimasta troppo tra parentesi. Terenzia è l’immagine e la memoria di molte splendide donne dell’antichità romana, Anastasia è icona di numerose e leggendarie martiri cristiane. Dimensioni e persone di cui la storia ci ha tramandato soltanto poche e frammentarie notizie e a cui va resa un po’ di giustizia.
Da “Roma brucia!” di Bruno Cantamessa (Città Nuova, 2016)