L’incendio di Roma raccontato da Lucio Verginio Rufo

Nel 64 d.C. un drammatico incendio distrugge il cuore di Roma. Un evento passato alla storia e che per la sua eccezionalità ha ispirato scrittori, registi, pittori. Nel racconto “Roma brucia!” Bruno Cantamessa ne ripercorre la storia attraverso lo sguardo di un contemporaneo
Roma brucia! Cantamessa_Città Nuova 2016

Per raccontare l’incendio di Roma del 64, noi oggi, dal nostro punto di vista posto in un lontano futuro, ci voltiamo indietro a guardare verso un lontano passato: è la prospet­tiva del discendente. Ci si può chiedere se sia possibile rac­contare quello stesso fatto dalla prospettiva dell’antenato o da quella del contemporaneo. […]

 

Questo libro presta la voce a un grande uomo che ha vis­suto al tempo dell’incendio di Roma. Lucio Verginio Rufo nacque infatti nel 14, lo stesso anno della morte del fondato­re dell’impero Ottaviano Augusto, e morì a 83 anni nel 97, al tempo di Marco Cocceio Nerva, l’imperatore che inaugurò il secolo d’oro di Roma, quello di Traiano, Adriano, Antoni­no Pio e Marco Aurelio.

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Di Rufo mi ha incuriosito l’intelligente capacità di valuta­re il suo tempo. Rufo legge e valorizza il passato della storia romana, è al servizio del presente in cui vive e sa sperare una futura gloria di Roma. Al contempo, non è un aristocratico, non appartiene a un’antica famiglia nobile, ma è un cavaliere fatto senatore da Claudio, di origini comasche, figlio o nipo­te di provinciali. Della sua carriera pubblica non si conosce quasi nulla fino al suo primo consolato del 63, e che a un certo punto prima di quella data fu probabilmente questore a Smirne, nell’attuale Turchia.

 

Il fatto importante della sua storia, dopo la nomina a go­vernatore militare della provincia della Germania superiore, lo raccontano i contemporanei Tacito e Plinio jr.: sconfit­to Giulio Vindice nella battaglia di Besançon, nel maggio del 68, Rufo rifiutò la porpora imperiale che le legioni ger­maniche gli volevano attribuire per acclamazione. Inoltre, nell’anno dei quattro imperatori seguito alla morte di Ne­rone, riconobbe Galba, fu console suffetto sotto Otone e si recò a Pavia da Vitellio, che lo salvò da quegli stessi legionari che lo avevano acclamato e che Rufo aveva deluso. Sotto i Flavi si ritirò a vita privata e fu ripescato alla vita pubbli­ca, ormai ultraottantenne, da Nerva, che lo volle console ac­canto a sé nel 96 dopo l’uccisione e la damnatio memoriae dell’imperatore Domiziano.

 

Questi gli elementi nudi e crudi che ci sono pervenuti sul­la vita di Rufo, con in più una notizia che ha acceso in me la curiosità e la fantasia: Tacito e Plinio jr. rivelano nei loro scritti una stima e un affetto straordinari per Rufo. Plinio jr. è in modo particolare la fonte di questa rivelazione, e ne ha ben motivo: nel 70, alla morte improvvisa di suo padre Lucio Cecilio, Plinio jr., che a quel tempo si chiamava Gaio Cecilio Secondo, aveva circa 7 anni. Verrà adottato più tardi dallo zio materno, il grande naturalista e futuro ammiraglio Pli­nio il Vecchio, dal quale assumerà il nome Plinio, ma intan­to viene accolto dall’amico di suo padre, che diventa il suo tutore: Lucio Verginio Rufo. Con molta probabilità, quindi, se il giovane Plinio jr. ha avuto la possibilità di crescere nel migliore dei modi e diventare Plinio il Giovane, è stato anche e soprattutto grazie a Rufo. […]

 

Al tempo dell’incendio di Roma, nel 64, Plinio jr. aveva meno di 2 anni, ma Rufo ne aveva 50 e aveva appena con­cluso il suo anno di consolato. Era quindi un uomo maturo e al culmine della carriera. Come visse e percepì il dramma dell’incendio in realtà non lo sappiamo, ma dai frammenti di notizie che ci sono pervenuti si può tentare una lettura in contemporanea delle vicende connesse con l’incendio. È quello che ho cercato di fare con questo libro. Naturalmente in una prospettiva letteraria, non certo in quella di un saggio storico, tenendo comunque ben presenti i dati storici, anche se talora contradditori.

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Il senatore e consolare Lucio Verginio Rufo è calato in questa realtà. La lettura della contemporaneità nel “raccon­to di Rufo” è sintetizzata dal titolo del libro: Roma brucia! Bruciano nel fuoco la città e i cristiani, ma bruciano in senso metaforico anche i congiurati del gruppo di Pisone, i quat­tro imperatori che si susseguono con la morte di Nerone e in certo modo anche un’idea di impero troppo dinastica. Ma la visione di Rufo è capace di andare oltre e di rimanere coerente alla sua speranza. Nelle vicende che gli vengono qui attribuite, questa dimensione si fonda e viene manifestata, fra l’altro, anche dalla sua adesione al culto di Mitra. In real­tà non abbiamo nessuna informazione in questo senso dalle fonti, ma proprio nel I secolo la versione romanizzata di un antico culto iranico stava prendendo piede particolarmente fra i militari. Un culto misterico segnato da gradi di cono­scenza spirituale, esigente sotto il profilo morale, concentra­to sul sacrificio. In un mondo romano alla ricerca di valori e motivazioni, il vecchio pantheon stava ormai stretto a molti. Mitra non fu la sola divinità di questo tipo che all’epoca tro­vò sempre più seguaci, basti pensare al culto di Iside e alle stesse istanze poste dal messia cristiano.

 

Un’ultima considerazione. Ho messo due donne accan­to a Rufo: una, Terenzia, compare nel momento in cui viene trovata morta; l’altra, Anastasia, per annunciare il proprio martirio. Ci sono e non ci sono, ma lasciano almeno intra­vedere una realtà femminile che altrimenti sarebbe rimasta troppo tra parentesi. Terenzia è l’immagine e la memoria di molte splendide donne dell’antichità romana, Anastasia è icona di numerose e leggendarie martiri cristiane. Dimen­sioni e persone di cui la storia ci ha tramandato soltanto po­che e frammentarie notizie e a cui va resa un po’ di giustizia.

 

Da “Roma brucia!” di Bruno Cantamessa (Città Nuova, 2016)

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