L’incendio
Mentre ancora ci guardavamo, si sentì gridare Demetrio dal peristilio: – Senatore, senatore Rufo, signore: Roma brucia! Roma brucia!
Mi precipitai alla porta. Demetrio piombò trafelato nella stanza.
– È scoppiato un incendio al Circo Massimo. Le fiamme stanno distruggendo il Palatino e nessuno riesce a fermarle. I vigili sono impotenti. Sta bruciando tutto!
Lo guardammo a bocca spalancata. Poi gli chiesi: – L’imperatore lo sa?
– Sì, sta preparandosi a partire per tornare a Roma. Macro – disse al centurione, – devi andare, i pretoriani si stanno organizzando per accompagnarlo.
Macro scomparve di corsa chiamando i suoi soldati.
– Vieni, Demetrio, partiamo anche noi. Procuriamoci dei cavalli!
– Ma è pericoloso!
[…] Marciammo in fretta percorrendo strade secondarie. Dopo due ore raggiungemmo infine la via Appia, dove montammo in sella. Appena fu possibile, spingemmo un poco l’andatura, mantenendo accese le lanterne. Per fortuna c’era anche la luna piena. Appena albeggiò passammo al trotto, sostando solo due o tre volte per dare fiato agli animali. Per fortuna lo sforzo mi impediva di immaginare cosa avrei trovato.
L’odore acre di bruciato ci aggredì ancor prima di raggiungere l’ultima collina. Poi ci apparve un denso fumo grigio che saliva sullo sfondo del cielo livido attraversato da un chiarore rossastro, innaturale. Quando infine arrivammo in cima alla salita, ciò che vedemmo in basso ci strinse il petto in una morsa di sconcerto. Sotto di noi il fronte delle fiamme si distingueva bene, nonostante la distanza: formava un semicerchio netto, rosso come una ferita appena inferta. Il vento soffiava verso il mare, sostenuto da oriente.
Dalla strada ancora buia sotto di noi saliva un sordo rumore continuo, mischiato talora a lamenti e nitriti. Scorgemmo una fila di luci che si snodava lungo la costa e ci rendemmo conto che erano fiaccole e lanterne. Una grande folla di persone stava risalendo la collina per cercare salvezza sulle alture. Qualche carro trainato da asini era fermo a breve distanza, sul costone, e una trentina di persone si erano ammucchiate là, con lo sguardo rivolto verso la pianura a scrutare i chiarori in mezzo alle ombre.
Quando il sole salì un poco oltre la cresta delle montagne ci apparvero la città e il nastro del Tevere che la attraversava; al centro di quella oscura macchia indistinta, il fulgore delle fiamme e la colonna di fumo che saliva turbinando e subito dopo si allargava in minacciose e rapide volute.
[…]
Caos e puzza erano ovunque. Mi resi subito conto che sarebbe stato molto difficile raggiungere i quartieri in fiamme. Il fumo acre e la folla in fuga nella direzione opposta alla nostra aumentavano via via che cercavamo di avanzare verso la città. La gente non era agitata, a quella distanza dal fuoco, ma camminavano tutti a testa bassa, sporchi, stringendo bambini troppo piccoli per camminare o trascinando borse e fagotti. Pochi ci degnavano di uno sguardo, ma negli occhi di quei pochi si leggeva profonda tristezza e paura, tanta paura. Si capiva che non potevano permettersi di piangere: tutte le forze erano concentrate a vincere la fatica, per mettere un passo davanti all’altro e allontanarsi dall’orrore. Avrebbero pianto dopo, forse, quando si fossero sentiti in salvo o fossero crollati a terra senza forze.
[…]
Mi ero completamente sbagliato, invece, e quando mi accorsi che eravamo saliti sul colle Oppio era ormai tardi. In un attimo ci trovammo di fronte una folla urlante di uomini, donne, vecchi e bambini. Dietro di loro, lingue di fuoco alte quindici o venti piedi sbucavano ruggendo improvvise dalle finestre di un palazzo. Ci appiattimmo contro un muro per non farci travolgere. Un uomo anziano con un bambino in braccio cadde a terra rovinosamente e il piccolo sbatté il capo su una grande pietra caduta da qualche casa vicina. In un lampo, una giovane donna poco più avanti gridò e tornò indietro, raccolse il bambino e lo scosse, senza risultato.
Il vecchio si era messo faticosamente a sedere per terra, quando la madre, forse resasi conto che il bambino era morto, lanciò un grido disperato, si guardò nervosamente intorno e corse verso il palazzo in fiamme: si gettò in un’apertura incandescente, scomparendo all’interno. Il suo grido echeggiò ancora per un istante, poi si spense per sempre. Il vecchio, che aveva assistito alla scena, si alzò e con una forza sorprendente corse a gettarsi nella stessa voragine, dove fu inghiottito senza emettere un solo lamento.
Da “Roma brucia!” di Bruno Cantamessa (Città Nuova, 2016)