L’impresa sociale si evolve
È ormai alle porte il grande evento che il governo italiano ha promosso, nel semestre di presidenza dell’Unione europea, per il rilancio dell’economia sociale come chiave di volta per rispondere alla crisi che attanaglia i Paesi dell’Europa meridionale.
Dal 17 al 18 novembre, a Roma, si alterneranno, in 12 sessioni parallele, ben 190 relatori provenienti da 25 Paesi europei con visioni certamente non uniformi su come “liberare il potenziale dell’economia sociale per la crescita in Europa” .
In Italia esiste una forte spinta trasversale per la riforma del Terzo settore e in particolare al nuovo ruolo che l’impresa sociale può giocare, secondo le linee di riforma governativa, con il mondo dei grandi capitali, disposti a investire in realtà imprenditoriali a forte impatto sociale senza aspettarsi, tuttavia, un grande ritorno di utili (“low profit).
La legge delega del Governo, che modificherà la legislazione vigente sull’impresa sociale, mira a superare il divieto di distribuzione degli utili ai soci, norma introdotta per sottolineare che l’unica finalità di questo tipo di imprese è incrementare il benessere della collettività.
Ne parliamo con Paolo Venturi, giovane direttore di Aiccon, il centro studi sull’economia civile promosso dall’ Università di Bologna (l’Alma mater studiorum), e dall’Alleanza delle cooperative, un vero gigante con 43 mila imprese associate, 12 milioni di soci e un milione e mezzo di lavoratori occupati. Proprio da questo humus proviene il ministro del lavoro Giuliano Poletti che ha approfondito anche questo tema alle giornate di studio organizzate a Bertino proprio dalla stessa Aiccon . Per Paolo Venturi la novità dell’impresa sociale è che «non è una tipologia giuridica, bensì una “qualifica” che può essere assunta da un pluralità di soggetti, dalle associazioni fino alle spa, passando per le cooperative. Questa è un rivoluzione perché abilità la dimensione produttiva come strumento della socialità». Passiamo però alle domande
Il professor Stefano Zamagni, la voce più autorevole in tema di economia civile, ha detto, tuttavia, che qualcuno in Italia ha voluto sabotare la legge sull'impresa sociale. Quali sono i veri assi discriminanti per far crescere l'impresa sociale salvandone l'identità?
«Il discriminante (dal punto di vista del modello gestionale) dell’impresa sociale è l’asset lock, ossia l’indisponibilità e l’indivisibilità del patrimonio, è questo che rende l’impresa sociale diversa dalle for profit e garantisce attraverso l’intergenerazionalità, una biodiversità rispetto alle altre forme d’impresa.
La riforma, aprendo (parzialmente) alla remunerazione del capitale, di fatto garantisce la possibilità ad investitori ed ai capitali pazienti di poter investire in una impresa sociale e di poter partecipare alla governance. Si tratta di un fatto decisivo per un settore che in prospettiva sarà sempre più orientato alla domanda pagante».
Nell'ibridazione tra soggetti profit e not for profit non si rischia di restare ingabbiati come realtà accessoria e subordinata all'economia "reale"?
«L’ibridazione non è un terra di mezzo in cui un soggetto perde la sua identità bensì un stadio dell’evoluzione dell’impresa sociale che, per affrontare i nuovi bisogni sociali, cambia alcuni connotati ma rimane impresa sociale ossia un’impresa inclusiva che risponde prevalentemente a bisogni meritori e all’interesse della comunità. L’ibridazione è di fatto il nome dell’innovazione sociale che sta già accadendo dentro al molte cooperative sociali che oggi sono impegnate, come 30 anni fa, a rigenerare modelli di servizio e di sostenibilità dentro uno scenario completamente nuovo».
Con il nuovo interesse dell’Europa verso l’impresa sociale e la relativa dotazione di fondi, non esiste il rischio di una conversione impropria e superficiale di tante aziende profit a no profit?
«Il riposizionamento delle for profit sui temi del sociale è iniziato ancor prima della nuova programmazione europea. Certo è che si dovrà chiarire bene la distinzione fra impresa sociale e responsabilità sociale dell’impresa poiché son due cose profondamente diverse. I fondi europei comunque passano in gran parte dalle Regioni e dallo Stato: sono questi due soggetti che per primi devono capire che l’impresa sociale ha un valore aggiunto per il contributo, non de-localizzabile, che apporta alla comunità».
C'è anche chi propone di far entrare le imprese sociali nella privatizzazione degli enti locali: non si rischia in questo modo di scardinare quel servizio pubblico dedito alle stesse attività?
«L’impresa sociale ed in particolare la cooperazione sono a mio avviso una delle modalità più adeguate per la gestione dei servizi pubblici. Sono colpevolmente fuori perché si pensa che i beni comuni ed i servizi pubblici debbano essere gestiti o dallo Stato o dal “Mercato”, questa dicotomia ha portato ai disastri che quotidianamente vediamo. L’impegno della cooperazione nella gestione dei servizi pubblici garantirebbe un maggior coinvolgimento e controllo della comunità nelle scelte, di conseguenza è un modo per rigenerare l’idea di “Pubblico” inteso come interesse generale e bene comune e non di scardinarlo».