L’impresa sociale sfida il dominio della ‘ndrangheta

LoppianoLab ha incontrato l'esperienza del Consorzio Goel nato in Calabria come segno concreto di riscatto dalla corruzione e dal potere mafioso. Intervista al presidente Vincenzo Linarello
Linarello Goel

Nella ricerca di una mappa per l’Italia, LoppianoLab ha dato voce alla straordinaria esperienza del Consorzio Goel, nato nella Locride, un’area della Calabria afflitta dalla disoccupazione e dal potere mafioso della ‘ndrangheta. Riportiamo l’intervista concessa da Vincenzo Linarello a Gabriele Mandolesi di Economia e Felicità, l’associazione con la quale Città Nuova già lavora nella promozione di Slot Mob.

Come nasce il gruppo Goel?

«Il gruppo Goel inizia la sua storia negli anni Novanta, quando mons. Bregantini mi chiede di dirigere l’ufficio pastorale del lavoro per rispondere al problema occupazionale della Locride. Nasce così un incubatore di imprese che ha consentito la nascita di numerose ditte individuali e cooperative. L’idea di fondo di questo progetto era la reciprocità: noi aiutavamo le imprese e le cooperative a nascere gratuitamente, e in cambio proponevamo loro di creare delle imprese che non fossero solo orientate al profitto, ma che si prendessero cura anche del territorio. Iniziano a nascere così le prime imprese sociali».

Cosa ha provocato questo movimento originale?

«Intorno al Duemila, ci siamo fermati a fare una riflessione che ci ha portati ad una lettura del nostro territorio ben precisa: la precarietà in Calabria è un progetto, non nasce dal nulla, e questa situazione di disagio porta al controllo dei voti e quindi delle risorse pubbliche. Dietro a questo progetto ci sono la ‘ndrangheta e le massonerie deviate, un’alleanza nata 35 anni fa con un progetto basato sull’occupazione degli snodi strategici delle istituzioni e dei territori. In pratica famiglie e imprese ricevono in concessione i propri diritti (dal credito alla sanità, dalla previdenza all’intera burocrazia) in cambio del voto e del consenso che, a loro volta, vengono offerti ai politici corrotti. Questi ripagano i vertici della ‘ndrangheta con altri posti di controllo in una spirale infinita. Quelli che dovevano essere diritti, si erano trasformati in beni da comprare da questo sistema con il proprio voto. Questo sistema di morte può essere affrontato con un altro sistema, ma necessariamente non da soli. Nasce, così, nel 2003, il gruppo Goel, un insieme di imprese sociali che operano in diversi settori: turismo responsabile, agricoltura biologica, assistenza sanitaria, inclusione e reinserimento lavorativo, alta moda ecc».

Come avete deciso di impostare il vostro progetto?

«La nostra strategia consiste nel rompere l’ingranaggio rispondendo ai bisogni delle persone senza ricatti, senza condizionare il voto. Sapevamo, però che questo non bastava, bisognava fare un percorso culturale: avevamo capito che oramai le parole non bastavano più, le persone non credevano più. Serviva che ogni idea di cambiamento fosse seguita da un’attuazione pratica. L’esperienza ci ha fatto capire che, quando si fa una proposta politica imprenditoriale, bisogna essere concreti».

Qual è stata la risposta della Locride e della ‘ndrangheta?

«Per capire il contesto bisogna aver chiaro che la ‘ndrangheta si è stratificata: il 90 per cento delle risorse derivate dalle attività illecite si è concentrata nelle mani degli affiliati che hanno fatto il salto nell’economia legale e nelle istituzioni. La gran parte della popolazione è esclusa dalla ricchezza prodotta dalla mafia. Pur disponendo di poche risorse puntiamo a delegittimare il sistema che genera consenso alla ‘ndrangheta e cioè l’idea che senza di “loro” non gira nulla. L’aver creato imprese sociali in tutti i settori è un messaggio chiaro: l’etica non è solo un’etichetta, ma è un fattore competitivo, e se riesce a fare cose serie nella Locride significa che funziona. Se riusciamo a dimostrare che la mafia non è solo “cattiva” ma è dannosa per tutti, abbiamo avviato una vera e propria rivoluzione culturale che impone dei punti fermi. Ad esempio nella Locride i produttori vendono le arance alla filiera della ‘ndrangheta a 5 centesimi di euro al chilo. Le nostre imprese comprano arance biologiche solo da quei produttori che si schierano apertamente contro la mafia, ma le pagano 40 centesimi di euro al chilo. Ricreare condizioni di dignità fa paura ma richiede scelte coraggiose e intelligenti perché rimanere in silenzio vuol dire morire di fame dato che il prezzo di vendita imposto dal sistema iniquo non è sufficiente per vivere».

Cangiari è forse l’impresa che colpisce di più: come siete arrivati nel settore dell’alta moda?

«Cangiari, che vuol dire “cambiare” in calabrese, vende vestiti biologici di alta moda prodotti con gli antichi telai. Se noi avessimo fatto un’impresa qualunque, senza una finalità sociale, quante chance avremmo avuto dalla Locride ad arrivare al mercato dell’alta moda? Etica ed innovazione sono competitivi quando lavorano assieme. Fino a qualche tempo addietro il messaggio di alcune imprese sociali era il seguente: “Compra il mio prodotto, anche se non è di qualità perché almeno è etico”. Questo approccio ha finito per ghettizzare l’etica, mentre il nostro punto di vista ribalta questo ragionamento. Noi abbiamo venduto dei prodotti alle boutique di alta moda perché i vestiti sono belli e di altissima qualità. Solo dopo gli abbiamo detto quale era la storia della filiera, ossia una storia di legalità e dignità perché la vera etica è quella che risolve veramente un problema e che è più forte del male che vuoi combattere».

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