L’impresa giusta in tempi incerti

La novità delle cooperative di comunità. Quando è centrale non solo il “quanto” si produce, ma il “come” e il “dove”

Non bisogna farsi ingannare dal numero ancora poco significativo (poco meno di 200, secondo la rilevazione che stiamo conducendo come  Aiccon) e dalla fragilità delle cooperative di comunità, poiché grande è il valore che queste esperienze producono e segnalano.
Sono comunità intraprendenti, capaci di generare economie di scopo attraverso l’agire concreto dei propri abitanti, azioni collettive che si propongono di trasformare gli spazi in luoghi, di “rammendare” prima e rigenerare poi, quei territori in cui tanto lo Stato quanto il mercato da tempo han dichiarato il loro “fallimento”.
È infatti nelle aree interne – dove lo spopolamento, l’invecchiamento, il depauperamento delle infrastrutture economiche e sociali sono più forti – che queste istituzioni, per certi versi profetiche, operano e lentamente si affermano.
Sono il segno di una nuova generazione d’imprenditorialità cooperativa, che mette al centro della propria azione una comunità aperta e inclusiva, che non rinuncia a investire su se stessa, e dove i legami fiduciari fanno la differenza. Le cooperative di comunità sono “imprese autentiche” (poiché rischiano e devono essere sostenibili) capaci di attivare e condividere risorse per un interesse
comune.
Il loro ambiente più prolifico è l’Appennino, ma si stanno diffondendo tanto in montagna quanto nelle aree delle periferie urbane. Nella “marginalità” e nella “vulnerabilità” le motivazioni e le aspirazioni degli “abitanti” stanno facendo da lievito a nuove soluzioni comunitarie, generando progettualità legate alla gestione dei beni comuni, al turismo, alle filiere agroalimentari e alla valorizzazione di beni culturali. Economie di luogo che producono beni e servizi utili non solo a nutrire una “contabilità” e a garantire lavoro, ma anche a offrire una speranza e un futuro alla propria comunità.
Sono imprese che hanno nella conversazione fra gli abitanti la propria “alba” e che attraverso questi percorsi (spesso discontinui) arrivano a immaginare e progettare soluzioni volte a generare un cambiamento positivo. Il primo passo per la nascita di queste esperienze non è infatti un business plan, bensì la creazione di occasioni d’informalità, dove i «riti e i piaceri del cooperare», per dirla con il sociologo Richard Sennet, diventano meccanismi generativi. I protagonisti e i fondatori delle cooperative di comunità li riconosci attraverso un test infallibile, considerano infatti quel luogo il centro del mondo. Sono istituzioni di nuova generazione che disegnano in maniera provocatoria e radicale una nuova idea di centralità nei modelli di sviluppo locale: una centralità costruita intorno ai significati e alla sostenibilità e non più intorno alla “densità economica” prodotta o consumata.
Questa visione rilancia il valore di un’economia più civile fondata su un ordine sociale che trova la sua armonia superando il dualismo fra Stato e Mercato: il terzo pilastro (la Comunità) diventa perciò l’elemento “trasformativo” e non solo quello riparatorio o compensativo. Le cooperative di comunità non sono perciò solo una “pratica di resilienza”, bensì il segno di una “nuova intraprendenza” che connette l’interesse individuale a quello comune.
In un’epoca caratterizzata da continui shock dovuti ad elementi esogeni (ambientali e
sanitari) ed endogeni (disuguaglianze), è fondamentale riscrivere percorsi di sviluppo in cui diventa centrale non solo il “quanto” si produce, ma il “come” e il “dove” questo valore si sedimenta, si distribuisce. Per coltivare un’idea diversa di sviluppo occorre un pragmatismo istituzionale che concepisca il tempo del sociale non separato dal tempo economico e che non riduca il valore generativo della democrazia nei meccanismi di produzione del valore.
Le cooperative di comunità non sono un “margine”, bensì un “nodo” di una diversa idea di territorio. Un’idea più contemporanea di quella che ha costruito la polarità e la dicotomia fra “centro e periferia”. Una politica nazionale le ha definite aree interne, ma a ben vedere sono il “centro” di una diversa idea di sviluppo territoriale e urbano. Una prospettiva che per esser sostenuta ha bisogno di un ambiente, di una sua ecologia: per trasformare beni privati e beni pubblici in beni comuni, queste imprese necessitano di un ambiente capace di stimolare l’interdipendenza e la comunanza.
Le cooperative di comunità sono esempi mirabili di quella che Giacomo Becattini chiamava «produzione come sociale». Sono cioè economia di luogo frutto della cooperazione fra soggetti diversi. Sono economie stanche delle soluzioni che vengono “da fuori” o “dall’alto”, sono imprese di nuova generazione che hanno «intenzionalmente deciso di investire sul lavoro e sui beni relazionali non solo per rigenerare asset (beni valutabili economicamente, ndr), ma per alimentare nuovi modelli di sviluppo umano integrale».

Cooperative di comunità, cosa sono?
Un nuovo modello organizzativo e gestionale che favorisce la partecipazione di tutti i soci, crea nuove opportunità di lavoro e promuove servizi che le pubbliche amministrazioni e le imprese non sono in grado di fornire, finalizzati al benessere collettivo e non a quello della massimizzazione del profitto. Nella prima normativa che le ha riconosciute (Regione Puglia 2014) si precisa che possono essere costituite quali cooperative di produzione e lavoro, di utenza, di supporto, sociali o miste e i relativi soci sono quelli previsti dalla normativa in materia di cooperazione nelle categorie di soci lavoratori, soci utenti, soci finanziatori, che a vario titolo operano con e nella comunità di riferimento.
Possono perciò assumere la qualifica di socio delle cooperative di comunità le persone fisiche, le persone giuridiche, le associazioni e fondazioni  senza scopo di lucro che abbiano la residenza o la sede legale nella comunità di riferimento della
cooperativa. Un esempio di tale realtà, riconosciuto anche dall’Onu, è la cooperativa Valle dei Cavalieri, in vita da oltre 25 anni a Succiso, piccolo borgo all’interno del parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano, minacciato dallo spopolamento a causa di una frana. Come riporta Roberta Ferrari di Federcasse, «con il coinvolgimento attivo degli abitanti rimasti, la cooperativa ha permesso la rinascita del borgo attraverso lo sviluppo dell’attività turistica, valorizzandone l’identità culturale. Gli impatti positivi dell’iniziativa si sono tradotti con il ripopolamento del borgo, il miglioramento della vita degli abitanti, l’aumento delle opportunità di lavoro e, quindi, la cessazione dell’emigrazione.
L’Autore dell’articolo è direttore Aiccon – Associazione italiana per la promozione della cultura della cooperazione e del non profit, Università di Bologna

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