L’imprenditore e la povertà
Una condizione di insicurezza, una situazione di esclusione oppure una beatitudine? Amministrare un'azienda comporta scelte etiche responsabili
È evidente che non tutte le condizioni di vita che oggi, e ieri, chiamiamo povertà sono beatitudine, felicità. C’è infatti la povertà dell’esclusione, dell’insicurezza radicale dell’oggi e del domani, l’assenza di diritti e di libertà, che non sono certamente stati beati. Quale povertà allora è o può diventare una beatitudine?
Credo che sia quella condizione, soprattutto spirituale, che ci impedisce di sentirci al sicuro e auto-sufficienti senza dover dipendere da nessuno e da niente. Quando non ci sentiamo più fragili e bisognosi di aiuto, quando il conto in banca e il posto fisso ci danno, o ci promettono, l’autosufficienza e l’indipendenza dagli altri, allora non siamo più quei poveri che il Vangelo chiama “beati”.
Questa dimensione della povertà dipende ed è legata a tutte le altre beatitudini (le beatitudini o si vivono tutte, o non se ne vive nessuna): solo chi è puro, mite, costruttore di pace, perseguitato per la giustizia può prima capire e poi vivere la vita con questa povertà, e desiderare il Regno. Quando invece i beni ci danno l’illusione di non dover dipendere da nessuno, di essere liberi da ogni legame forte con gli altri, allora il ricco si merita i “guai” che seguono il discorso sulle beatitudine.
I beni, non solo quelli economici, portano felicità solo quando sono strade di incontro con gli altri, quando vengono vissuti con castità e non usati per immunizzarci dai rapporti veri e profondi. è questo il ricco che non entra nel Regno: non entra perché non lo vede e non lo capisce (è impossibile non voler entrare nel Regno dei cieli se lo vediamo e capiamo!). Il Regno dei cieli è solo di questi poveri.
Anche l’imprenditore è chiamato a vivere questa povertà, se vuole essere un imprenditore EdC. Una povertà che non è solo distacco spirituale, ma molto di più. C’è il distacco dal suo ruolo, dal potere, e magari da certi beni di comfort anche quando tutti i suoi colleghi li considerano normali.
C’è poi il distacco concreto dal denaro, quando a fine anno dona buona parte degli utili per gli scopi dell’EdC. Questi utili donati e non messi in banca o a riserva, lo rendono più vulnerabile (quindi queste scelte in un’impresa, sono sempre delicate: anche il non trovarsi nella condizione di essere di peso agli altri è una forma di amore e di responsabilità), e lo mettono nelle condizioni di maggiore dipendenza e vulnerabilità, soprattutto nei momenti difficili e in quelli di crisi.
La vita economica, soprattutto quella dell’impresa, vive di incertezza e rischio, e il successo e i profitti degli imprenditori dipendono dai clienti, dai fornitori, dai lavoratori, da tanti. Se oggi guardiamo ai grandi ricchi miliardari, questi raramente sono imprenditori: più spesso sono speculatori, managers, redditieri.
L’imprenditore, almeno per come lo vede la tradizione civile e quella della Dottrina sociale della chiesa, per vocazione è un costruttore e un innovatore, non un cercatore di rendite di posizione e un consumatore di beni di lusso, e se e quando lo diventa tradisce la sua funzione sociale. Da questa prospettiva si comprende perché nel Medioevo i mercanti erano annoverati tra i poveri (pauperes) poiché, a differenza dei proprietari terrieri, la loro ricchezza era sempre fragile e soggetta alle alee dei contratti e alla sorte.
Queste fragilità e incertezze, però, non bastano da sole a mettere l’imprenditore EdC nella beatitudine della povertà: occorre qualcos’altro. Il donare, ad esempio, gli utili fuori dall’azienda è un atto di grande povertà dell’imprenditore, quasi un atto contro natura poiché egli ha l’istinto del costruire la sua azienda; ma ha anche un grande valore etico e spirituale, poiché in un mondo dove con il denaro si compra quasi tutto, il denaro tende a diventare tutto. E nel sottolineare con i fatti invece che il denaro può e deve essere donato, ricorda a se stesso e a tutti che i beni più preziosi sono altri, che esiste un “oltre” che inizia fuori dei cancelli dell’impresa, un Oltre per cui vale la pena spendere non solo il denaro, ma la vita tutta.
La Provvidenza tanto evocata, e a ragione, nell’EdC significa anche vedere all’opera quella dinamica sorprendente di chi tutto dà e poi, con la stessa povertà con cui ha dato, può chiedere tutto: “l’amor che tutto chiede e tutto dà”, recitava una canzone dei primi tempi del Movimento dei Focolari. Solo se ho tutto dato con povertà evangelica, posso chiedere tutto agli altri, a me stesso prima, senza pretenderlo, con la stessa purezza e distacco con cui si è dato tutto. Soltanto l’imprenditore-povero conosce la Provvidenza.
“Solo ora che anche io imprenditore mi trovo a vivere la povertà, capisco veramente la condizione di quei poveri che per tanti anni ho cercato di aiutare con i miei utili”, mi diceva qualche giorno fa un imprenditore, in uno dei momenti di comunione più vera e profonda di questi anni. A volte può essere una crisi economica grave, altre una calunnia o una diffamazione, altre ancora una malattia o un esaurimento, ma se un imprenditore, e ogni attore dell’EdC, non sperimenta nella sua vita, nella sua carne e nella sua intelligenza questa povertà, inevitabilmente il suo “aiutare” i poveri sarà immaturo (magari in totale buonafede), paternalistico, poco evangelico, poiché solo un povero può aiutare con dignità e rispetto un altro povero.
Oggi dall’EdC sta allora nascendo anche una nuova figura di imprenditore, un mercante che Gesù non scaccia dal tempio, perché è un povero che può, e quindi deve, sentirsi dire: “beato”.