L’impossibile di Marina Abramovic
Una porta e due giovani nudi come statue antiche, ai lati come stipiti. Per entrare occorre passare attraverso di loro. È spiazzante Marina Abramovic fin dall’inizio. Bisogna non avere niente per entrare nel suo mondo. Che non è facile: può essere attraente o respingente. Dagli anni Sessanta ai Duemila l’artista delle performance in cui mette alla prova il suo pensiero, il corpo, le memorie, i limiti, le potenzialità espressive, è un torrente continuo che attraverso video, foto, installazioni, dipinti, oggetti, e la ri-esecuzione dal vivo di alcune celebri performance indaga e scruta la storia e la vita. Non solo la sua, ma quella di tutti.
Per la prima volta a Palazzo Strozzi, protagonista assoluta. L’artista di Belgrado, nata pittrice nel 1946, tende da subito all’astrazione e all’indagine sul corpo. Il suo, che mette alla prova con performance fisiche all’estremo come in Memory, Voice, Body (1975) in cui sfida la propria capacità di resistenza attraverso estenuanti azioni ripetitive di parole, suoni, gesti.
Nel ’75 conosce l’artista tedesco Ulay: insieme (anche se dirà che “un artista non dovrebbe mai innamorarsi di un altro artista”), vivendo in un furgone, viaggiano per l’Europa e producono performance comuni come Relation in Space dove sperimentano l’incontro/scontro tra energia femminile e maschile. Il video del 1976 è quanto mai significativo: i due corrono l’uno verso l’altro, si sfiorano, ma non si incontrano. Cercano il dialogo, ma non ci riescono.
Nel video del 1980 Rest Energy, Marina rimane per 4 minuti con una freccia davanti che sta per scoccare e trafiggerle il cuore: la vita è duello con la morte, bisogna saper resistere. Nel 1988 con Ulay decidono di percorrere la grande Muraglia Cinese per sentieri opposti: 90 giorni di cammino senza sosta fino ad incontrarsi. Questa ricerca dell’impossibile, coinvolge il pubblico.
Nel 2001 Marina inventa Energy Clodes, una sfida: stare in piedi, nudi, sotto l’acqua corrente fredda, fino a quando non se ne può più; poi asciugarsi, indossare vestiti energetici e restare immobili. Perché così tante sfide, perché una esibizione di sé stessa al limite della sopportazione e anche turbando il pubblico?
Marina rivisita tutto, anche la mistica, come quando ridiventa Teresa d’Avila in estasi in cucina (The Kitchen, 2009). O quando in Confession, 2011, rivisita la sua, di vita, sola davanti ad un asinello: muta con chi è muto. Di tanti suoi lavori, vari, conturbanti, eccessivi, e pure intimi e feriti, quest’ultimo è forse una goccia rivelatrice della verità – o di una verità – su di lei. Marina ha in sé rovente il sangue del dolore. Suo e del nostro tempo. Non ha soluzioni, non ha luce, può solo provocare. Lo affronta come una martire di sé stessa, senza luce, in un viaggio inesorabile al centro dell’anima umana. Oltre le apparenze, Marina cerca, distruggendosi, la pace.
Marina Abramovic The Cleaner. Firenze, Palazzo Strozzi. Fino al 20.1.2019 (catalogo Marsilio)