L’impegno sociale delle aziende

Sesto rapporto sulle aziende che provano ad integrare profit, no profit e istituzioni per uno sviluppo sostenibile e che a partire da una nuova visione dell'economia guadagnano una reputazione etica 
Le ragazze dell'azienda al lavoro

Quante sono le imprese in Italia che si impegnano in iniziative di responsabilità sociale? Con quali motivazioni e in che ambiti? La crisi ha influito su questo impegno? E a quanto ammontano gli investimenti? Sono alcune delle domande a cui ha cercato di dare una risposta il VI Rapporto di indagine 2014 sull'impegno sociale delle aziende in Italia, realizzato dall'Osservatorio Socialis di Errepi Comunicazione, e presentato all'Università di Udine su iniziativa del laboratorio di etica di economia e diritto (LabEED).

La responsabilità sociale d'impresa è un fenomeno, ha ricordato il direttore di Socialis, Roberto Orsi, «nato nei Paesi anglosassoni, ma che anche in Italia inizia a svilupparsi: il nostro database ha già raccolto 800 tesi di laurea su questo argomento. Si avverte l'esigenza di concretizzare una nuova visione dell'economia, più attuale e solidale, e la reputazione etica diventa un punto di forza per le imprese». Un paradigma che è passato dal «produci e vendi» all'«ascolta e rispondi», con attenzione «non più solo agli azionisti, ma a tutti i portatori di interesse sul territorio: solo l'integrazione tra profit, no profit e istituzioni può portare ad uno sviluppo sostenibile».

Oggi il 73 per cento delle aziende dichiara di investire nel sociale, dal 44 per cento del 2001: nemmeno la crisi ha influito su questa percentuale, dato che la crescita non si è arrestata. Il flusso globale dei finanziamenti è arrivato a quasi un miliardo di euro annui; e se l'importo medio destinato a questo scopo dalla singola impresa è diminuito, è altrettanto vero che «sono più numerose le imprese ad impegnarsi in questo senso, investendo magari meno, ma in maniera più oculata».

Gli ambiti di investimento principali sono il risparmio energetico e contenimento degli sprechi (il 65 per cento delle imprese interpellate afferma di impegnarsi in questo senso) e per iniziative a favore dei dipendenti (55 per cento): «due ambiti nettamente cresciuti – osserva Orsi – sino a ribaltare l'ordine di priorità: ora sono l'azienda e l'ambiente che lo circonda e i suoi dipendenti al centro dell'attenzione, forse anche grazie alla crisi». Non a caso oltre la metà delle risorse vengono investite all'interno dell'azienda. Seguono lo smaltimento dei rifiuti, le iniziative di solidarietà e sostegno umanitario, le attività sportive e quelle artistiche e culturali. Nuove tecnologie per lo smaltimento dei rifiuti e il risparmio energetico, borse di studio alle università, possibilità di destinare direttamente dalla propria busta paga una quota ad associazioni attive sul territorio o iniziative di solidarietà, welfare aziendale, giornate di volontariato: tutte modalità di impegno che le aziende hanno citato, segno di una consapevolezza di «produrre non solo per sé stesse ma anche per il territorio».

Ma che motivazioni spingono le imprese ad essere “socialmente responsabili”? Innanzitutto il miglioramento dell'immagine, così da attrarre nuovi clienti: «i consumatori votano sempre più con il portafogli – ha osservato Orsi – e comprano molto più volentieri da un'azienda che dimostra di comportarsi in maniera “etica”». Segue il desiderio di contribuire allo sviluppo sostenibile, il senso di responsabilità verso le generazioni future, il miglioramento dei rapporti con la comunità, il coinvolgimento dei dipendenti e l'aumento della visibilità dell'azienda. Tra le priorità identificate dagli imprenditori per il futuro spicca la riduzione degli sprechi e dell'impatto ambientale, citata quasi all'unanimità; seguono le pari opportunità, l'integrazione sociale, la promozione di progetti di sviluppo per la comunità e il sostegno al settore sanitario.

Cos'è invece che frena le aziende in questo impegno? Innanzitutto la mancanza di una visione condivisa sui temi sociali; seguono la mancanza di risorse economiche, la mancanza di una cultura manageriale su questo fronte, la mancanza di incentivi di mercato e la scarsa condivisione di buone pratiche. Anche per questo è stata auspicata sia dagli imprenditori intervistati che da Orsi stesso l'attivazione di corsi universitari specifici, così da formare “professionisti dell'impresa sociale”.

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