L’impegno nello studio: uno sforzo per cosa?

Da un’intervista di Victoria Gómez a Juan Luis Fuentes, docente di pedagogia all’Università Complutense di Madrid: «Non possiamo aspettarci dagli studenti solo lo sforzo. La domanda chiave è: uno sforzo per cosa?».
(Foto: Pexels)

Nelle società sempre più ipersensibili in cui si sta trasformando il mondo occidentale, soprattutto quando entra in gioco la difesa dei diritti acquisiti nel corso della storia, diventa sempre più faticoso, e perfino inimmaginabile, fare uno sforzo.

Beh, lo lascio per domani, oppure: in questo momento i miei neuroni non funzionano troppo bene… Scuse che tutti abbiamo inventato davanti ad un lavoro o ad un impegno faticoso, senza renderci conto del male che questo rinvio fa a noi stessi, di non compiere un passo in più. Ma questo vale anche nei confronti degli altri. Si diventa pigri e si offre un cattivo esempio. Ha forse senso faticare in un ambiente culturale dove tutto è a portata di mano con un semplice clic o premendo un tasto? Sembrerebbe che solo le conquiste fisiche abbiano un senso: scalare una montagna, vincere una gara, ottenere il guinness della competizione più strana…

Di senso, appunto, parla il professor Juan Luis Fuentes, docente di Pedagogia all’Università Complutense di Madrid: «Non possiamo aspettarci dagli studenti solo lo sforzo. La domanda chiave è: uno sforzo per cosa? Quali ideali offriamo loro perché ne valga la pena?». Lo racconta in un’intervista rilasciata a Victoria Gómez e pubblicata sulla rivista Ciudad Nueva, l’edizione spagnola di Città Nuova, dove esplicita le fondamenta di una cultura dello sforzo. Fuentes pone l’accento sull’idea comunemente accettata che per ottenere ciò che vuoi devi lavorare sodo, ma «la lotta per il successo deve essere accompagnata dalla resistenza alla frustrazione e dall’accettazione del fallimento». Si riesce dunque a resistere quando la cosa ha un senso. Almeno sopravvivere, come abbiamo sperimentato durante la pandemia.

Questo brano dell’intervista mi sembra chiarificatore: «Secondo alcuni autori oggi c’è un primato delle emozioni, quello che conta è ciò che ci fa stare bene. Non è nemmeno nuovo. Già nei Dialoghi di Platone, ai tempi dell’Antica Grecia, un interlocutore del filosofo affermava che l’edonismo, la ricerca del piacere, è l’unico scopo della vita umana. Nel corso della storia, poi, diversi pensatori hanno sostenuto che sono altri i beni, di natura superiore, quelli che definiscono più in profondità la vita umana. Le emozioni sono importanti, non c’è dubbio, ma vanno integrate con il resto della persona».

Fuentes si dice inoltre preoccupato dall’eccesso di protezione verso bambini e adolescenti. Così ha potuto verificarlo questo giovane dottore in Pedagogia: «Ho visto la frustrazione di molti studenti che vengono all’università non per essere quello che vogliono essere, ma per quello che i loro genitori vogliono da loro. E questo è devastante». Cioè, seguire un percorso iperprotettivo per paura dei tanti rischi della vita non è cosa buona. È vero che a nessuno piace il fallimento, «ma è inevitabile in diverse sfaccettature della nostra vita. E l’affermazione che si impara più dai fallimenti che dai successi è vera, se ammetto i miei sbagli o cerco alternative ai miei errori», afferma Fuentes.

Insomma, si tratta di interessanti considerazioni pedagogiche sulla cultura dello sforzo, ben riassunte in questa affermazione: «Impossibile escludere limiti, dolori o situazioni frustranti. Affrontare i limiti è formativo e dobbiamo esservi preparati».

 

Clicca qui per guardare il video dell’intervista completa in spagnolo.

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