L’impegno nelle file della Resistenza

L’amore per la propria gente spinge Duccia durante il regime fascista a impegnarsi nelle file della Resistenza. Presta la sua casa come rifugio per chi è in fuga dalle SS. Fa da staffetta per portare informazioni e materiale utile ai partigiani rischiando più volte anche la vita. Come emerge nel racconto di Ilaria Pedrini – “L’altro novecento” – edito da Città Nuova.
L'altro novecento_Pedrini_Città Nuova_2016

«Amare la povera gente»: fu questa scelta a produrre in quel contesto drammatico il reciproco avvicinamento e quin­di la sincera ed efficace collaborazione fra persone di diversa ispirazione ideale, come i comunisti alla Mario Pasi e persone generose per tradizione cristiana come la Calderari. Duccia cominciò anche ad accorgersi che fra alcuni medici c’era una particolare intesa, un parlarsi sottovoce, brevi ritrovi nei cor­ridoi dell’ospedale. Venni a sapere che nell’ospedale un grup­po di medici agivano clandestinamente come partigiani. Io ero desiderosa di unirmi a loro, perché non potevo assolutamente sopportare che le vie della mia città – la città di Cesare Batti­sti! – fossero piene di tedeschi6 che vi camminavano da padroni.

 

Durante una pausa un giovane assistente medico, Gino Lubich, la prese in disparte e le fece una confessione: «Quel­la del medico non è la mia attività più importante. Assieme ad un gruppo di amici lavoriamo per un ideale patriottico e sociale. Aspiriamo ad un futuro migliore, in cui vengano prese in considerazione le classi più povere e diseredate; un futuro in cui ci sia maggior giustizia sociale. I nazisti si sono impadroniti della nostra città, per cui è necessario lavorare per la libertà, senza perder tempo».

 

Mentre parlava il volto gli si illuminava e le parole usci­vano come un fiume, piene di fervore, di convinzione che la meta era lì, a portata di mano. Quell’idealità appassionata non poteva non far presa sull’animo di Duccia. Ben presto fu dei loro. Nel primo periodo tuttavia Gino non le fece cono­scere nessun altro e neppure nominava i compagni di lotta. Lo richiedeva la prudenza. Se lei fosse stata presa dalle SS sarebbe stato più facile non tradire, non pronunciare i nomi.

 

Entrai quindi anch’io nella Resistenza, con il nome di Te­resa, in ricordo di Teresa Casati Confalonieri, eroina del Risor­gimento che avevo tanto amato. Misi subito a disposizione la mia casa. Quando arrivavano persone da fuori Trento per conferire con i “nostri”, si ritrova­vano alla Cervara. […]

 

Villa Calderari servì dunque magnificamente allo scopo di dare rifugio a quanti fuggivano dalle persecuzioni delle SS. Ancora oggi è possibile notare, entrando dalla porta del giar­dino, l’accesso alla “scaletta del partigiano”, un’angusta disce­sa di gradini di pietra, a chiocciola, che conduce a una cantina sotto il pianterreno. Chissà quanti vi trovarono la salvezza. […]

 

L’azione di Duccia non si limitò all’ospitalità nell’inso­spettabile villa. Sempre più si prestò coraggiosamente a es­sere staffetta per portare notizie e ordini, in altre città o ai combattenti in montagna. Riuscì addirittura a percorrere a piedi in una notte i 55 chilometri che separano Trento da Malè, nella neve alta, passando attraverso i boschi per non farsi scoprire.

 

Lavoravo anche come staffetta: tenevo i contatti fra i grup­pi di Trento e quelli che combattevano in montagna. Ricordo che la vigilia del 13 maggio [1944], giorno in cui la città fu colpita da un terribile bombardamento, io mi trovavo a Cava­lese per consegnare una lettera alla farmacia del paese, che da lì sarebbe stata poi recapitata ai partigiani del Lagorai. Avevo la parola d’ordine per essere riconosciuta. Rimasi nascosta tut­to il giorno per non farmi riconoscere dai tanti trentini che si trovavano lassù per ripararsi dalle bombe. Ripartii per Trento il giorno seguente alle 4 di mattina, con il treno, ma l’ultimo tragitto nella valle dell’Adige dovetti farlo a piedi perché nella notte la città era stata bombardata. Arrivando non vidi altro che macerie!

 

Mi mandarono anche a Padova, a farmi consegnare un pli­co di volantini che, tornata a Trento, avrei dovuto divulgare. Al ritorno era programmato che mi fermassi anche a Verona, ma all’indirizzo che mi era stato dato non rispondeva nessuno. Ero spaventata; era già buio, c’era il coprifuoco e non sapevo che fare. Mi trovavo al quarto piano dell’edificio. Mi sdraiai a terra sul pianerottolo, appoggiando la testa sul valigino pieno dei volantini clandestini. Conteneva un appello di Concetto Marchesi a tutti i partigiani, di combattere uniti, di mettere da parte le diverse posizioni ideologiche, di mirare tutti alla stessa finalità… Mi piaceva molto! All’alba andai alla stazione per prendere il treno per Trento. Per le strade non c’era nessuno e sentivo solo il rumore dei miei tacchi sul selciato… Dovevo fare in fretta per arrivare in stazione; a un certo punto vedo in lontananza una persona che si avvicina. Era un fascista in servizio di ronda, un repubblichino. «Ma non sa che c’è il co­prifuoco?». «Certo che lo so! Ma sono dovuta venire a visitare uno zio10 e ora devo assolutamente prendere il treno delle 6, per arrivare al lavoro a Trento. Perché non mi scorta lei fino alla stazione? Arriverei più sicura».

 

Con l’ironia fine che la connotava conclude così quest’a­neddoto che la rivela piena di ardore e di coraggio, senza sfoggio: La sicurezza era che avevo a sinistra il repubblichino e alla destra il valigino con i miei volantini…

 

Da L’altro novecento. Nella testimonianza di Duccia Calderari di Ilaria Pedrini (Città Nuova,2016)

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