L’immaginario mafioso

Intervista con Marcello Ravveduto sulle organizzazioni criminali, il cinema, la musica e il mondo “interreale”

Marcello Ravveduto è docente di Digital Public History presso l’Università degli studi di Salerno e l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. È componente del Comitato scientifico della rivista Narcomafie e della Biblioteca digitale sulla camorra e sulla cultura della legalità presso l’Università Federico II di Napoli.

È stato referente del presidio Libera di Salerno. Ha collaborato, in qualità di editorialista, al sito giornalistico Fanpage. In occasione dell’uscita del suo ultimo libro dal titolo Lo spettacolo della mafia. Storia di un immaginario tra realtà e finzione (Edizioni Gruppo Abele, 15 euro), lo abbiamo incontrato presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università di Salerno a Fisciano e gli abbiamo rivolto alcune domande.

Chi è Marcello Ravveduto?
Un docente di Storia contemporanea che si è specializzato nella storia dell’immaginario mafioso. Nei miei studi utilizzo tutte le fonti storiche: dagli old media alle fonti audiovisive e digitali.

Il suo ultimo libro approfondisce la massiccia esposizione mediatica delle organizzazioni criminali. Per anni, come lei argomenta più volte nel saggio, al cinema veniva rappresentata la mafia siciliana. Un po’ meno la camorra. Invece, di film sulla ‘ndrangheta, ne sono usciti pochissimi. Perché nell’immaginario cinematografico la mafia continua ad avere un forte appeal, nonostante da anni la ‘ndrangheta risulti essere l’organizzazione criminale italiana tra le più forti, brutali e ramificate al mondo?
È evidente che Cosa Nostra siciliana, soprattutto dal dopoguerra in poi, ha avuto un ruolo fondamentale nelle vicende storiche dell’Italia, in particolare dopo la strage di Portella della Ginestra, eccidio perpetrato nel 1947 dalla banda del boss Salvatore Giuliano contro la folla che stava festeggiando il primo Maggio, la festa del lavoro. In quegli anni il cinema ovviamente era influenzato dalla storia reale, in cui dominava la mafia siciliana strutturata come un corpo intermedio ed un potere criminale con rapporti con le Istituzioni politiche e con i servizi segreti. Dagli anni Cinquanta in poi anche la camorra acquista sempre maggiore forza e dimensione nel Paese, soprattutto per ciò che concerne il contrabbando, ed il cinema inizia sempre più ad occuparsi della criminalità napoletana, raccontandone gli atti delittuosi. Necessita anche dire che c’è stato un grande lavoro nell’immaginario cinematografico di costruire coscientemente un mondo “folkloristico” attorno alla mafia. Cosa Nostra siciliana ha avuto più successo al cinema, perché aveva alle spalle più saggi, monografie e romanzi che parlavano del sistema mafioso in Sicilia. Avendo molte fonti, i cineasti potevano più facilmente attingere da esse per poter costruire l’immaginario filmico. Per esempio il film di Pietro Germi del 1949, In nome della legge, è tratto dal romanzo autobiografico Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo.

Nel suo libro fa riferimento quasi sempre al cinema. Ci sono esempi di teatro italiano militante antimafia?
Certo. Ricordo, tra i tanti, la piéce di Giulia Minoli, Dieci storie proprio così, oppure lo spettacolo teatrale di Lirio Abbate e Pif, gli spettacoli di denuncia dell’attore Giulio Cavalli o anche il famoso monologo di Marco Travaglio, È stato la mafia, o ancora la piéce di Tiziana Di Masi: Mafie in pentola. Libera terra, il sapore di una sfida.

La musica, rispetto alle altre due forme d’arte citate, a volte sembra meno militante e di denuncia e quasi sembra blandire o fare apologia di reato. Penso alle sceneggiate di Mario Merola, alla musica neomelodica degli anni Ottanta e Novanta fino alla trap di oggi. Spesso lei cita un trapper salernitano, Capo Plaza, che in una delle sue più famose canzoni, Giovane fuoriclasse (su youtube conta oltre 64 milioni di view), inneggia alla vita del criminale. Cosa pensa di questo?
Non credo che l’ottica di un Mario Merola o di altri neomelodici fosse quella di blandire o di fare apologia di reato. Tutti questi cantanti erano e sono in una dimensione culturale, in cui quel mondo esiste. E loro raccontavano e raccontano la realtà circostante. Senza orpelli. Senza denunciare. Un racconto crudo della propria città che coincide con le ruberie e gli omicidi della criminalità organizzata. Il teatro denuncia i mali della società, quali le mafie, perché è un medium borghese. La musica non lo è. Infatti per anni la vecchia e la nuova borghesia napoletana etichettava ed etichetta come “spazzatura” le sceneggiate, la musica neomelodica e la trap. Per esempio Capo Plaza vive quel mondo brutale e pieno di ferite. Non potrebbe mai raccontare nelle sue canzoni la storiellina d’amore tra due fidanzati. Non sarebbe né autentico né credibile. Racconta, invece, quello che vede e purtroppo quello che vive: la marginalità, la criminalità, i furti, lo spaccio di droga.

E come se lo spiega il fatto che le canzoni di Capo Plaza vengono ascoltate e ricantate da una miriade di fan, che vivono in contesti pacifici, legali, borghesi e dunque lontanissimi da quel mondo criminogeno?
Oggi il male è purtroppo la narrazione prevalente in tutti gli ambiti. In queste ultime settimane furoreggia Joker al cinema, così come sono sempre dei bestseller i noir, farciti di omicidi e rapine, di Carofiglio e De Giovanni. I giovani non hanno più la pruderie di presentarsi necessariamente come i buoni. Il linguaggio odierno, poi, non ha più alcuna continenza morale, esso è un hate speech, che per le masse, soprattutto giovanili, risulta più autentico e meno retorico.

Lei, da anni, ha aperto profili fake di Facebook e in tal modo ha potuto inserirsi facilmente nelle baby gang campane? Come e chi sono questi “paranzini”? Cosa ascoltano? Come vestono? Quali sono i loro ideali di vita?
Sono veloci, attenti e svegli. Hanno un talento sicuramente eccellente. E poi sono molto smart e tecnologici: sono bravissimi a captare le tendenze. Sono orgogliosi delle proprie azioni criminali. Per questi ragazzi tutto ciò che è al di fuori del crimine è sbagliato e va contrastato e combattuto. In un capitolo del libro queste baby gang le chiamo Google Generation, ovvero generazioni di giovani mafiosi, attratti dal glamour e dal trash. La moda per i “paranzini” è un modo di essere, non solo di vestire. Per le baby gang è fondamentale l’ostentare il benessere raggiunto grazie ai propri atti criminali. Questo modus vivendi dei “paranzini” è soltanto la riproposizione digitale di una narrazione culturale di lungo periodo: già i camorristi di inizio Novecento, come raccontano Serao e Russo, vestivano alla moda e in maniera appariscente per farsi notare. E consideravano la propria eleganza come un elemento per identificarsi nella società.

Ultima domanda. Lei sostiene che con l’avvento dei social non viviamo più solo in un mondo reale né in un mondo virtuale, ma in un mondo interreale. Che cos’è precisamente?
È il nuovo spazio sociale che non è dato da una semplice addizione tra i due mondi citati, quello reale e quello virtuale, ma è invece un’altra realtà, in cui stiamo già vivendo da anni. I cittadini di questa nascente società interreale hanno e avranno nuove modalità di fare politica, di fare arte, di fare amicizie e di creare relazioni. L’interreale ha già modificato la politica. E le relazioni amorose. Noi facciamo ancora parte di quelle generazioni che notano le differenze tra i tre mondi. Le future generazioni non noteranno più la differenza tra la dimensione fisica e quella virtuale: sarà a quel punto che il processo della società interreale sarà giunto al suo livello più forte e profondo.

 

 

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