Liliana Segre e la parole giuste per spiegare l’indicibile

La senatrice a vita è intervenuta nel corso di un'assemblea plenaria del Parlamento europeo, spronando e commuovendo gli europarlamentari con il ricordo di sé stessa da ragazzina, mentre scheletrica e disperata affrontava la "marcia della morte".

C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. Ho pensato a queste parole dell’Ecclesiaste della Bibbia sentendo parlare Liliana Segre ieri al Parlamento europeo. L’emozione dei parlamentari è forte e quel consesso di uomini liberi nato dalle rovine della guerra sembra scosso dalla forza delle sue parole. Dai gesti misurati. Da quella eleganza mite e forte. Dalla vita che vince la morte.

È ancora il tempo di parlare, di cercare le parole giuste per dire l’indicibile, per provare a spiegare dove si annidi l’odio, il male dell’uomo sull’uomo, dove nasca quel sentimento di disprezzo per gli altri esseri umani che sempre cova in tutti i tempi e in tutti i luoghi. E che poi i più scaltri sanno manipolare per i propri osceni scopi di propaganda.

È ancora il tempo di ricordare il male altrui, di ricordarlo ai nipoti che verranno perché sentano l’istinto del bene e lo possano scegliere. Liliana parla in modo semplice e alto, con parabole accessibili alle coscienze di adulti e di bambini. Vuole lasciare un’immagine, una metafora che prenda vita nella testa e nella coscienza di chi l’ascolta. È il disegno di una bambina di Terezin che prima di essere deportata ad Auschwitz disegnò una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati. Liliana ci chiede di guardare oltre il filo spinato, di saper immaginare un mondo che sceglie il bene.

C’è un tempo per parlare, c’è un tempo per tacere. Liliana muove le corde più profonde, rende accessibile la sua vita e il suo destino. «Da tre anni- afferma – sento di essere io che salto fuori dalle mie memorie, quella ragazzina magra, denutrita, disperata, sola e non la posso più sopportare. Sono la nonna di me stessa e sento che se non la smetto di parlare, se non mi ritiro, quel tempo che mi resta a ricordare da sola e a pensare alle grandi gioie della mia famiglia ritrovata, non lo potrò più fare». E prosegue: «Sento che i ricordi di quella ragazzina che sono stata non mi danno pace: quella ragazzina lì che ha fatto la marcia della morte, che ha brucato nei letamai e non piangeva più è un’altra da me e io sono anche la nonna di me stessa ed è una sensazione che non mi abbandona».

C’è un tempo per tacere. Per guardare alla vita che resta, agli affetti degli anni, alla famiglia ritrovata. Ci sarà un tempo in cui anche quella ragazzina magra e denutrita, disperata e sola, potrà scomparire nel tempo. Ciascuno di noi – anche quando la vita non ci chiede di naufragare nel male da testa a piedi come ha chiesto a lei – conserva dentro di sé le ferite e le sofferenze, il trauma, un abbandono.

C’è un tempo per guardare al bene, per ricordare quello che non è stato inferno, per fare memoria di quelle grandi gioie che vivono per sempre.

 

 

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