Lidia Borzì, mettere al centro il lavoro dignitoso
Nel messaggio dei vescovi della Cei per il 1° maggio si parla della necessità di «abitare una nuova stagione economico-sociale». A suo parere, in che direzione ci si dovrebbe muovere e con quali prospettive?
Nel messaggio, con grande lungimiranza, vengono già indicate due piste per la ripartenza, ovvero l’enciclica di papa Francesco «Fratelli tutti» che, attraverso la riscoperta dell’amicizia sociale, ci richiama all’importanza di umanizzare i luoghi di lavoro a partire dalle relazioni e il cammino verso la Settimana Sociale di Taranto che sarà incentrata sul tema molto attuale del rapporto tra l’ambiente e il lavoro, anche questo orientato ad assumere una visione incentrata sull’ecologia integrale della persona. Credo che ci sia un filo rosso che lega queste due piste e che ritengo sia la direzione verso cui muoversi per una nuova stagione economica e sociale, ovvero mettere al centro il lavoro dignitoso, quello che dà tutele e diritti, in termini di sicurezza, salute, retribuzione equa e che è il grande assente, come ci ha dimostrato la pandemia che da sanitaria è diventata subito economica e sociale svelando larghe fasce di lavoratori con basse tutele e bassi salari. Invece il lavoro dignitoso è la via maestra per combattere le povertà, la cultura dello scarto, le diseguaglianze e lo sfilacciamento sociale perché consente una realizzazione personale, da’ diritto di cittadinanza e contribuisce alla crescita integrale della persona e della società.
Nel messaggio ci parla anche di un «vaccino sociale» della pandemia, rappresentato dalla rete di legami di solidarietà. In che modo si possono generare tali legami nella città?
La pandemia ci ha costretti all’isolamento, con gravi ripercussioni sulla sfera delle relazioni vive, per questo adesso è necessario ripartire da una vera e propria rivoluzione della cultura della cura, una cura non solo sanitaria, di cui c’è tanto bisogno comunque in questo momento. Ma cura sociale, intesa come cura del bene comune, cura delle relazioni, per rammendare dal basso il tessuto sfilacciato e cura della democrazia per mettere al centro la buona politica basata su equità e giustizia sociale. La cultura della cura ci chiama anche ad essere responsabili l’uno dell’altro e oggi serve uno scatto di corresponsabilità, perché nessuno si salva da solo. Dobbiamo riuscire a trasformare i nostri tanti «io» in un grande «noi». Questo è il tempo del noi, il tempo della cura e del discernimento comune, della guarigione di una società malata di individualismo e indifferenza. È il tempo di stringere un «patto di prossimità» che ci muova a farci carico a tutto tondo delle famiglie, come singoli e come organizzazioni, privilegiando il lavoro di rete, tra tutti i soggetti della sussidiarietà in quanto percorso di condivisione che favorisce le sinergie e moltiplica i risultati.
In questo periodo di pandemia il lavoro si è svolto spesso da casa e ha consentito di risparmiare il tempo degli spostamenti e di dedicarsi maggiormente alle relazioni familiari. Ci sono, però, luci e ombre…
Certamente il lockdown ha sdoganato lo smart working, ma, a ben guardare, tanto agile non è ancora nel nostro Paese, sarebbe meglio dire «web working» e, ad ogni modo, ha dimostrato che non è la soluzione ideale per essere imprenditori del proprio tempo se non viene prima sistematizzato. Pensiamo alla fatica dei genitori in smartworking, in particolare mamme su cui spesso ricade la cura dei figli, nel conciliare in casa, magari in un piccolo appartamento, cicli e tempi di lavoro con gli spazi personali e familiari. Sicuramente però lo smartworking porta dei vantaggi, soprattutto in una città grande come Roma, si risparmia per gli spostamenti casa-lavoro, con benefici per il traffico, per l’ambiente e anche per la famiglia. Ma non è lo smartworking così come è oggi, la panacea per la conciliazione. Dunque, per il futuro, è necessario che questo istituto abbia spazio, che vada normato e garantendo tempi adeguati di disconnessione e idonei strumenti di lavoro. Aggiungo anche che bisogna orientarsi verso forme ibride di lavoro, non può esserci uno smartworking tout court, ma occorre prevedere tempi e spazi in presenza per garantire le relazioni vive che è una componente fondamentale del benessere lavorativo.
È appena ripartito il progetto delle Acli di Roma «Generare lavoro», rivolto ai giovani. Quali sono gli obiettivi?
Quest’anno in particolare il cantiere vuole essere un vaccino contro l’apatia e la rassegnazione per dare anzitutto una risposta di speranza ai giovani che il confinamento ha come chiuso in una bolla. Il nostro è un progetto unico perché coniuga i valori del lavoro dignitoso, mutuati dalla Dottrina sociale della Chiesa, con strumenti concreti per entrare nel mondo del lavoro, dalle opportunità imprenditoriali alle tutele sindacali, dalle soft skill, all’empowerment personale, per elaborare un curriculum vitae efficace, costruire un portfolio di competenze e affrontare brillantemente un colloquio di lavoro. Tutto questo grazie al contributo delle organizzazioni in rete a partire dalla diocesi di Roma, attraverso la pastorale sociale e del lavoro insieme a una rete di associazioni su Roma come Cisl, Confcoperative, Ucid, Azione Cattolica, Mcl e Centro Elis. In questi anni abbiamo aiutato tanti giovani a fare delle proprie passioni un mestiere, a partire dai propri sogni e a coltivarli con gli strumenti giusti, perché come recita una massima, chi fa il lavoro che ama non lavora neanche un giorno.