L’ideologia dell’incentivo
Nessuna organizzazione può disporre delle virtù più importanti di cui ha bisogno. Sono sagge quelle che accettano lo scarto tra le virtù desiderate e quelle che riescono a ottenere dai loro lavoratori, e che quindi imparano a convivere con l’inevitabile indigenza delle qualità umane fondamentali al loro funzionamento e alla loro crescita, senza cercare di sostituirle con cose più semplici. La prima saggezza di ogni istituzione consiste nel riconoscere di non avere il controllo sull’anima dei propri membri – ogni virtù è prima di tutto una questione d’anima. […]
La novità oggi sta nell’eclisse totale di questa antica saggia consapevolezza, soprattutto nel mondo delle grandi imprese, sempre più convinte di aver finalmente inventato strumenti e tecniche per ottenere dai loro lavoratori tutte le virtù di cui necessitano – tutta la mente, tutte le forze, tutto il cuore – senza bisogno né della forza né, tantomeno, del dono. E così finiscono per ritrovarsi con pseudo-virtù. Questa distruzione di massa delle virtù ha molto a che fare con l’ideologia dell’incentivo. La cultura che si pratica nelle grandi imprese, in particolare nei vertici, sta diventando un culto perpetuo al dio incentivo, una vera e propria fede il cui dogma principale è la convinzione che sia possibile ottenere l’eccellenza dalle persone remunerandole adeguatamente. La meritocrazia nasce da un’alleanza con l’ideologia dell’incentivo, perché il merito viene riconosciuto costruendo un sistema di incentivi sempre più sofisticato e disegnato su misura per ottenere il massimo da ogni persona, per ottenere, possibilmente, tutto. Si crede, così, che incantando le persone con gli incentivi queste possano liberamente dare il loro meglio (non dimentichiamo che incentivo, incantesimo e incantatore di serpenti hanno la stessa radice). In realtà, l’incentivo non solo non è uno strumento adatto per creare e rafforzare le virtù, ma in genere le distrugge perché riduce drasticamente la libertà delle persone. […]
Pensiamo, per un esempio, alla lealtà.
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La lealtà non può essere contrattualizzata. È tutta una faccenda d’anima. […]
La lealtà è lo spirito dei patti e delle promesse, che vivono di scelte e atti visibili sorretti da atti e scelte invisibili. Ci sono parole non dette, cose non fatte, segreti tenuti dentro per amore di qualcuno per tutta una vita, che generano, rigenerano e non fanno morire i nostri patti, inclusi quelli che fondano la vita delle imprese e delle istituzioni. Parole non dette e cose non fatte di cui nessuno ci dirà mai “grazie”, ma che danno spessore morale e dignità alle nostre relazioni e a tutta la nostra esistenza. Si comprende allora che la virtù della lealtà non può essere rafforzata, né tantomeno creata, con gli incentivi. Anzi, la logica degli incentivi scoraggia la lealtà proprio perché incoraggia e rafforza i comportamenti visibili, controllabili, contrattuali. Qui si apre un nuovo scenario. […]
Si genera così una radicale e progressiva creazione di “lealtà contrattuali”, che essendo osservabili e controllabili sono prive della parte più preziosa della virtù della lealtà vera. Ci si ritrova in istituzioni popolate da virtù-bonsai, tutte controllate e inscrivibili dentro i soffitti delle imprese. E i bonsai non portano frutti, e se li portano sono minuscoli e non commestibili. Tutto ciò produce un fenomeno di grande rilevanza. Queste piccole e gestibili “virtù” funzionano abbastanza bene per le situazioni ordinarie della vita delle imprese, ma rendono le organizzazioni altamente vulnerabili nei periodi delle grandi crisi, quando ci sarebbe bisogno della lealtà e dell’anima vera dei lavoratori, che però nel frattempo sono state sostituite dagli incentivi. L’ideologia degli incentivi, eliminando gli spazi incontrollabili di libertà e di fiducia, riduce le piccole vulnerabilità ma aumenta tremendamente le grandi vulnerabilità delle imprese, che si trovano prive di quegli anticorpi etici essenziali per sopravvivere alle malattie serie.
Gli esseri umani sono molto più complicati, complessi, ricchi e misteriosi di quanto le istituzioni e le imprese credano. A volte siamo peggiori, molte volte migliori, sempre diversi. Ci ritroviamo dentro sentimenti ed emozioni che non ci consentono di essere efficienti come dovremmo. Disperdiamo infinite risorse in richieste di riconoscimento e di stima che sappiamo non saranno mai soddisfatte dalle risposte che otteniamo. Attraversiamo prove fisiche e spirituali, viviamo shock emotivi, affettivi, relazionali. Ma siamo anche capaci di azioni molto più degne e alte di quelle richieste dai contratti e dalle regole. E restiamo vivi e creativi finché i luoghi del vivere non ci spengono la luce del cuore riducendoci a loro immagine e somiglianza, cancellando quell’eccedenza d’anima dove abita la salvezza nostra e quella delle nostre imprese. Soprattutto di quelle imprese speciali che sono le comunità e i movimenti carismatici.
La distruzione creatrice. come affrontare le crisi nelle organizzazioni a movente ideale (Città Nuova, 2015)