Libia tra rinascita e violenza

Un attentato al presidente, una sparatoria in chiesa, armi in circolazione nonostante l’embargo: Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, ci racconta un Paese che cerca governabilità e crescita economica. Benedice le partenze dei rifugiati per le coste europee e fa appello alla solidarietà per «questi ultimi del Vangelo»
Libia. Una donna festeggia i due anni della fine del regime

La Libia non è più di Gheddafi da due anni, ma non è neppure dell’attuale presidente dell’Assemblea nazionale, Mohamed al-Megaryef, che con sforzi immani sta cercando di mantenere la stabilità del governo e una normalità che garantisca agli investitori un Paese sicuro e affidabile. Le notizie di questi giorni non sembrano attestarsi sulla linea della rinascita, anzi l’attentato al presidente dell’Assemblea nazionale del Parlamento sembra una conferma che non tutto è sotto controllo, neppure nella capitale. Abbiamo raggiunto al telefono monsignor Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, per conoscere da vicino cosa sta vivendo la Libia del post Gheddafi .

Quale clima si respira nel Paese?
«La situazione è delicata ma non è tragica. Nessuno ci aggredisce, ma al contempo evitiamo al massimo le imprudenze. Ci sono stati segni di aggressione e fondamentalismo nell’Est della Libia: Tobruk, Derna. Le suore sono state costrette a lasciare. A Tripoli c’è stato un attentato in una chiesa: un uomo è entrato e ha sparato al prete. Non è però un’aggressione di carattere religioso. Ci chiediamo anche noi chi possa essere stato, ma non è imputabile in toto ai fondamentalisti, non riusciamo proprio a identificare gli autori. Forse era solo un delinquente che voleva mostrare la sua forza».

Tripoli sembra una città sicura ma fa i conti con un attentato al presidente del Parlamento…
«Ci sono armi dappertutto e in un modo o in un altro vengono talvolta usate per questi attentati. Morti ce ne sono in continuazione per gli attentati e non saprei dargli dettagli in merito. Anche gli scontri vicino allo stabilimento dell’Eni dicono chiaramente che in certi luoghi comandano ancora i miliziani e il governo non può far molto. Chi possiede le armi, in questo momento, impone il proprio volere. La gente però è tranquilla e non si lascia impressionare, anche se esprime preoccupazione per gli atti di questi fondamentalisti».

Come si sta procedendo alla ricostruzione?
«Speriamo realmente di ricostruire il corpo sociale. Occorre, però, essere cauti, perché bisogna equilibrare le forze e dare a tutti la possibilità di esercitare i propri diritti e di esprimere un proprio governo, perché la Libia è fatta di tante tribù e il modo di esercitare il potere è diverso. È vero che non si può accontentare tutti e che ci vuole un governo abbastanza forte per comprendere tutte queste anime: bisogna pazientare, perché è stato eletto da poco e non è in grado di dominare totalmente la situazione».

E i cristiani?
«Non c’è pericolo, anche se c’è un po’ di paura. Le suore di cui dicevo prima, per paura, hanno dovuto lasciare la zona, poi la chiesa copta è stata minacciata e un prete copto è stato torturato, però si sta calmando. Leggo questi episodi come uno sfogo, ma in realtà si vuole tornare alla normalità. È intervenuto il governo egiziano e il ministero degli esteri perché avevano imprigionato dei copti accusati di proselitismo. In realtà si tratta di gente semplice che viene in Libia per lavorare. Loro portano segni di croce dappertutto e per questo vengono scambiati per persone che evangelizzano, ma basta la loro presenza per dire quale segno di Vangelo vissuto siano, anche senza parole».

La primavera imminente annuncia una nuova ondata di sbarchi sulle coste europee? 
«Le partenze ci sono sempre, cambiano solo i ritmi. In tanti qui vogliono partire: sono immigrati, rifugiati, gente che in tutti i modi vuole avere una possibilità per un posto sicuro. L’approssimarsi della bella stagione rinnoverà il fenomeno. Io li benedico e chiedo al Signore che gli dia possibilità di trovare un posto tranquillo, perché in Libia non possono rimanere. Non c’è tranquillità e sicurezza per loro. Arrivano dall’Africa sub-sahariana e stazionano nei campi dei rifugiati dove la miseria è totale e per questo cercano un nuovo lido».

Continuate la rete di assistenza che avevate già sperimentato durante la guerra…
«Dobbiamo anzitutto dargli da mangiare e poi c’è tanta gente malata, tante donne che per pagare il loro tributo devono sottostare ad esperienze impensabili. Ogni venerdì diamo da mangiare a più di trecento persone, poi diamo dei pacchi spesa con riso, olio, pasta e vestiti. Ci servirebbero dei fondi per comprare in loco quello che serve, in modo da aiutare i commercianti qui e non incorrere nei blocchi delle merci dall’estero. E poi abbiamo una piccola clinica soprattutto per donne e per bambini. Per i rifugiati non c’è normalità perché vivono nella miseria e sono sfruttati da tutti: sono gli ultimi del Vangelo».

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