Libia e Isis. Chi fornisce le armi?

Intervista a Maurizio Simoncelli, Archivio disarmo, sul flusso di armamenti che alimenta il caos generato nella regione dall’intervento  militare del 2011: una guerra voluta dalla Francia e  criticata da  pochi mezzi di informazione (Citta Nuova ad esempio)
isis

È prevista per giovedì 19 febbraio l’audizione in Parlamento del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che domenica scorsa ha affermato che Il peggioramento della situazione richiede ora un impegno straordinario e una maggiore assunzione di responsabilità e pertanto «l'Italia è pronta a fare la sua parte in Libia nel quadro delle decisioni delle Nazioni Unite». 

 

Secondo il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, intervistata da Il Messaggero, dipenderà dagli scenari che si andranno a configurare l’eventuale «schieramento di truppe di terra» perché «L’Italia è pronta a guidare in Libia una coalizione di paesi dell’area, europei e dell’Africa del Nord, per fermare l’avanzata del Califfato che è arrivato a 350 chilometri dalle nostre coste. Se in Afghanistan abbiamo mandato fino a 5mila uomini, in un Paese come la Libia che ci riguarda molto più da vicino e in cui il rischio di deterioramento è molto più preoccupante per l’Italia, la nostra missione può essere significativa e impegnativa, anche numericamente». Il premier Renzi invita a temporeggiare in vista della posizione dell’Onu («La situazione è difficile ma non è tempo per una soluzione militare») mente Romano Prodi, dall’alto della sua grande esperienza internazionale, invita a cercare ogni forma di mediazione per scongiurare la guerra anche se, osserva, «il problema è che all’Onu oggi manca una guida».

 

Città Nuova è stata una delle poche testate esplicitamente critiche verso l’intervento militare della coalizione occidentale in Libia nel 2011 fortemente determinato dalla Francia. Di fronte a queste ore così drammatiche resta aperta la domanda sull’Isis che compare nell’editoriale dell’ultimo numero di Città Nuova a firma del direttore Michele Zanzucchi: si inorridisce vedendo i macabri video ma si dimentica di domandarci chi ha armato i miliziani del cosiddetto Califfato e «chi li ha istigati ha creare scompiglio nella regione siro irachena (mentre avanza il disordine globale)».

 

È la domanda che poniamo al professor Maurizio Simoncelli, esperto di geopolitica, vicepresidente dell’autorevole centro di studi internazionali “Archivio disarmo :  

 

Chi ha armato e continua ad armare il califfato?

 

 

 «Le armi in circolazione in Medio Oriente sono uno dei problemi costanti dell'instabilità regionale. Come è noto, il governo siriano di Assad è rifornito da Mosca, mentre le forze ad esso ribelli ricevono armi in modo non ufficiale dai paesi vicini. E' interessante notare un incremento delle importazioni in tutta l'area già da diversi anni. Secondo i dati del Sipri, gli Emirati Arabi, tra il 2010 e il 2013, hanno ricevuto armi per 5.215 milioni di dollari. Nello stesso periodo, sono state fornite armi all'Arabia Saudita per 4.497 milioni di dollari, alla Turchia per 3.243 milioni di dollari, all'Iraq per 1.818 milioni di dollari, alla Siria per 1.412 milioni di dollari. Il califfato ha poi avuto accesso agli arsenali dell'esercito iracheno, che si è dileguato in diverse occasioni, facendo finire nelle mani degli estremisti armi fornite a Baghdad dagli Stati Uniti. La stessa cosa è avvenuta con la caduta di Gheddafi, per cui i suoi arsenali sono finiti nell'area siriana e nel Mali. Secondo un rapporto del Pentagono già nel 2007 risultava che di circa 12 mila armi su 13 mila  consegnate all'esercito iracheno si era in larga misura persa traccia. Ufficialmente le partite di armi e munizioni sono sempre vendute regolarmente, ma poi strada facendo – per così dire – prendono subito o successivamente altre vie. In uno studio dell'Archivio Disarmo del 2013, già risultavano trasferimenti di armi  dall’Iran verso la Siria e il Libano, dalla Turchia verso Israele, l’Arabia Saudita, l’Egitto, il Bahrein e l’Iraq (dopo la caduta di Saddam), da Israele verso la Turchia, e così via. Anche l'UE ha la sua rilevante responsabilità in questo flusso continuo».

 

 

Come si potrebbe interrompere questo flusso di armamenti?

 

 

 «In Siria, come in Libia si potrebbe attivare un intervento dell'Onu teso ad un rigido e deciso embargo delle forniture di armamenti, ma il controllo non può essere lasciato solo alle forze dei Paesi in questione, ma devono essere coinvolti anche i paesi limitrofi, quelli attraverso il cui territorio passano queste merci, e la comunità internazionale. Soprattutto occorre mettere sotto controllo anche i mercanti privati, oltre quelli autorizzati dai governi nazionali».

 

 

Quale soluzione alternativa all'intervento armato arriva dal mondo del disarmo ?

 

 

 «Come abbiamo visto in questi anni, gli interventi armati in Afghanistan, Iraq e Libia non hanno risolto i problemi, anzi per certi versi li hanno aggravati. Il mondo del disarmo ha sempre asserito che la soluzione deve essere politica e diplomatica da un lato e condivisa nella legalità internazionale, cioè nella cornice ONU, dall'altro. Anche il mondo islamico moderato deve far la sua parte e denunciare l'estremismo fanatico che mina la convivenza tra i popoli e le culture, mentre il mondo occidentale deve comprendere che non può fare e disfare governi e stati nel mondo secondo una vecchia logica di stampo coloniale. Aprire con leggerezza un altro fronte di guerra in Libia (che abbiamo contribuito a far precipitare nel caos) è assolutamente inutile e controproducente. Il blocco delle forniture militari e delle munizioni potrebbe contribuire a ridurre la conflittualità. Ma i maggiori produttori di armi, che sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'ONU (insieme alla Germania, all'Italia, all'Ucraina, a Israele e alla Spagna), lo vorranno veramente attuare?»

 

Siamo sull’orlo di un nuovo intervento armato in Libia.  Come è stato possibile che l'Italia abbia aderito, nel 2011, all'iniziativa francese pur controvoglia e con il parere contrario dei vertici militari?

 

 

 «L’Italia non ha mai mostrato di essere in grado di gestire una politica estera autonoma, espressione di una volontà nazionale decisa (ancora si ricorda come vanto nazionale la ferma posizione di Craxi rispetto all’aereo dirottato dagli USA a Sigonella nell’ottobre 1985). Dopo aver stipulato accordi discutibilissimi con Gheddafi (sia sui respingimenti dei migranti in alto mare, sia su forniture di armamenti), ci si è accodati successivamente ad un intervento militare deciso altrove, affermando poi ufficialmente che l’Italia non avrebbe partecipato direttamente all’attacco militare, mentre in realtà ben 710 nostre bombe e missili sono state sganciate su obiettivi libici, come ha dichiarato il generale dell'Aeronautica Giuseppe Bernardi in un’intervista dell’Espresso nel febbraio 2012. Sembra essere una tradizione tutta italiana quella di accodarci ad iniziative estere rispetto alle quali il nostro Parlamento non ha avuto modo di discutere adeguatamente e di decidere conseguentemente. Non si ha il coraggio di mettere in rilievo gli interessi che si muovono dietro questa partita, cioè quelli connessi alla produzione petrolifera».

 

 

 Chi governa davvero la Libia odierna e cioè le varie regioni e soprattutto le risorse energetiche? 

 

 

«Non è assolutamente facile individuare chi governa davvero la Libia oggi, come dimostrano i conflitti interni endemici ormai sin dalla caduta del regime di Gheddafi. Per ora sembrano esserci due governi in contrasto tra di loro, uno di Omar al Hassi a Tripoli, legato agli islamisti (che controllano anche gli imbarchi verso l'Europa) ed un altro di Abdullah al Thani a Tobruk, sostenuto dalla comunità internazionale. Secondo alcune fonti, sono centinaia le bande armate (secondo alcuni 250, secondo altri mille 700) che si aggirano tra Cirenaica, Tripolitania e Fezzan sahariano. I berberi, la cui roccaforte è sulle montagne di Nafusah, sembrano aspirare ad una loro autonomia, mentre nell'area di Sirte ancora rimangono forti i gruppi fedeli a Gheddafi, duramente repressi dalle forze armate della città Stato di Misurata. I jiahdisti dalla Cirenaica puntano verso Tripoli. Certamente l'interesse delle varie parti in causa, interne ed esterne, è connesso all'oro nero, come dimostrano i fatti. La Libia, che pochi anni fa estraeva un milione di barili al giorno, ora, in seguito a tutte queste vicissitudini, ne estrae 650 mila, comunque meno della metà dell'era Gheddafi. Chi controlla la Cirenaica, detiene l'80 per cento della produzione petrolifera e lo Stato centrale non riesce ad affermare la propria autorità. Il governo di Tobruk, come vediamo, sta richiedendo a gran voce l'intervento della comunità internazionale al fine di fermare le milizie islamiste».

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons