Libero mercato, ma è veramente libero?
Immaginiamo per un momento che, per misurare il grado di benessere di un Paese, anziché ricorrere al classico Pil, fosse utilizzato il Pbc (prodotto del bene comune), un indice dove contano aspetti come la coesione sociale, la solidarietà, la qualità democratica, la sostenibilità ambientale, la dignità umana, la giusta distribuzione dei redditi, la parità negli stipendi… Con questo esercizio mentale avremmo avvicinato, al meno un po’, il pensiero di Christian Felber, un professore di Economia di Vienna, ancora giovane (1972), una mente poliedrica, competente anche come filologo, sociologo e psicologo.
Felber ha suscitato forti polemiche da quando nel 2010 pubblicò il libro Die Gemeinwohl-Ökonomie, Das Wirtschaftsmodell der Zukunft, tradotto poi in varie lingue (in italiano: L’economia del bene comune. Un modello economico che ha futuro, Tecniche Nuove). Ora gira l’Europa presentando la sua ultima opera, Per un commercio mondiale etico, e in questi giorni sono state diverse università spagnole, come l’Università di Cantabria o quella di Valencia (dove esiste una cattedra di Economia del bene comune), ad accoglierlo per presentare l’edizione in spagnolo. Questa volta Felber fa una profonda riflessione sui valori che dovremmo anteporre all’ossessione per la crescita dell’attività economica. «Ben inteso – ha detto in uno dei suoi interventi davanti ai giornalisti – il commercio potrebbe contribuire al bene comune, che oltre l’economia include gli obiettivi di sviluppo e sostenibilità, la difesa dei diritti umani e altri aspetti quali la protezione delle culture indigene o la diversità biologica».
Un modello di sviluppo alternativo a quello convenzionale, dove resta prioritaria la crescita economica, Felber non lo vede impossibile, mettendo alla base i principi e i valori universali. E tira fuori l’esempio del Bhutan. Questo piccolo Paese asiatico decise di non far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio e stabilì un modello di sviluppo che misura, anziché il Pil, la «felicità nazionale lorda», cioè, la percezione che i cittadini hanno del benessere, della salute, dell’educazione, della qualità dei rapporti e dei fattori ambientali, della sicurezza e di tutto quanto influisce su una vita soddisfacente.
Ma Felber va ancora più in là e propone quello che chiama «il bilancio del bene comune», e cioè una sorta di «biglietto d’ingresso» al mercato internazionale. «L’acceso al mercato – dice – potrebbe essere vincolato ai risultati nel bilancio del bene comune: a migliori risultati, cioè, quanto migliori siano i risultati etici in materia di diritti umani, occupazione, diversità, ambiente, trasparenza, lotta contro la corruzione e fiscalità, più libertà per accedere al mercato».
Felber poi attacca il mito del libero mercato e sostiene che dovrebbero esserci meno barriere commerciali per quelle ditte che contribuiscono allo sviluppo dei diritti umani, e più barriere per quelle non li rispettano. Pensa anche che cercare solo il surplus commerciale è «un crimine internazionale» perché «la somma dei bilanci commerciali è sempre zero, e se un Paese ha surplus, un altro sarà ovviamente in deficit».
Le teorie di Felber sono note agli economisti, che talvolta lo tacciano di un certo semplicismo. L’esempio del Bhutan, ad esempio, è interessante ma estremamente difficile da maneggiare, sia perché il Paese è piccolissimo e ancora quasi autocratico, ma anche perché in quel Paese tanti diritti non sono rispettati. A cominciare dalla libertà religiosa… Ma le teorie di Felber hanno il pregio di smuovere le acque, di lanciare sassi nello stagno, di credere che qualcosa di diverso sia possibile. E non è poco.