Libano, pochi votanti e risultati dubbi
Nella giornata di ieri, passeggiando per le vie del centro di Beirut, si aveva l’impressione che la mobilitazione della popolazione fosse straordinaria, che il clima fosse da sagra strapaesana, malgrado la presenza massiccia delle forze dell’ordine, e che la democrazia fosse vincente. In realtà a uno sguardo più attento si sarebbe costatato come la grande mobilitazione riguardava soprattutto gli attivisti dei partiti e i giovani pagati per fare un po’ di baccano, che il clima festoso fosse dettato soprattutto dalle tante liste miste che mescolavano i simboli dei partiti con infinite bandierine colorate e con enormi faccioni dei candidati, che la democrazia non fosse la grande vincitrice, ma che tuttavia fosse sopravvissuta.
Strane queste tanto attese elezioni libanesi. Colpa forse anche della nuova legge elettorale, frutto di un compromesso faticosissimo ottenuto tra le grandi forze politiche, quelle che hanno permesso l’elezione di Michel Aoun alla presidenza della Repubblica libanese, dopo più di due anni di seggio vacante (25 maggio 2014-31 ottobre 2016). Una coalizione che teneva e che tiene (?) assieme i maggiori partiti dei diversi campi: gli Hezbollah di Nasrallah e gli Amal del presidente del parlamento Nabih Berri per gli sciiti, i cristiani del Fronte patriottico libero del presidente della Repubblica e le Forze libanesi di Samir Geagea, e infine in campo sunnita solo il partito del primo ministro Saad Hariri.
La legge elettorale libanese è probabilmente la più complicata al mondo. Nemmeno gli esperti riescono a spiegarla completamente. Si intrecciano infatti la necessità di assicurare l’equilibrio confessionale tra musulmani e cristiani con le tendenze interne ai vari campi, compresa la presenza drusa, in collegi elettorali ridisegnati e con conteggi locali e nazionali.
Una tale legge elettorale, che ha dato l’impressione di aver scoraggiato tanti votanti, ha fatto sì che la partecipazione finale al voto non sia stata delle migliori, appena sopra il 49 per cento (49,2%0), perdendo circa cinque punti rispetto alle precedenti elezioni (54,08%). Il che sembra aver permesso ai blocchi tradizionali di migliorare i loro risultati, a scapito delle liste minori, quelle sostenute dalla società civile, che avrebbero voluto cambiare un po’ un panorama parlamentare bloccato e considerato asservito alle logiche claniche (se non corruttive) della regione. Anche i conflitti di interesse molteplici che attraversano la politica libanese (basti l’esempio dell’uomo d’affari Hariri) sembrano aver ulteriormente bloccato la situazione.
I risultati, che si annunciavano rapidi «perché tutti informatizzati», in realtà sono ancora tutt’altro che certi. Sembra che il blocco degli Hezbollah abbia tenuto e che anzi avanzi persino in regioni non tradizionalmente sciite, come un paio di collegi nel Nord cristiano, mentre in campo cristiano le Forze libanese di Samir Geagea paiono aver aumentato i loro deputati. Terrebbero Aoun e Hariri. Tutto al condizionale, perché nulla è ancora sicuro, e forse lo sarà solo alla fine della giornata di oggi. Allora si potranno tirare delle conclusioni “definitive”. Per il momento gli osservatori restano prudenti, salvo costatare la scarsa partecipazione degli elettori al voto.
Il giornale francofono L’Orient-le-Jour commenta così, forse un po’ troppo pessimista, la giornata elettorale: «È a causa dell’impressione nauseabonda del blocco totale del sistema, misto a una legge elettorale ibrida che ha moltiplicato gli istinti settari, le inclinazioni materialistiche e altre turpitudini e che ha completamente de-radicalizzato il discorso politico… che si deve spiegare ieri il tasso di partecipazione del 49,20%… Gli elettori sono rimasti dubbiosi, e anche francamente diffidenti».