Libano, un governo con la condizionale
L'esecutivo presieduto da Hassan Diab muove i suoi primi passi. Riuscirà a convincere la popolazione? Difficile dirlo. Sperando che il bracere non si infiammi
Dopo quasi tre mesi senza governo, il Libano ha da qualche giorno, precisamente dal 21 gennaio, un governo. I 20 ministri, tra cui 6 donne, stanno insediandosi nei propri rispettivi palazzi, la macchina presidenziale spinge per far presto, il Parlamento cerca di facilitare il lavoro all’esecutivo. Il nuovo primo ministro è un volto non molto conosciuto in Libano, anche se era stato a suo tempo ministro dell’Istruzione dal 2011 al 2014. Hassan Diab è un accademico della maggiore università libanese, l’American University of Beirut, l’Aub, un ingegnere.
Come si sa, il sistema politico libanese è definibile come una “democrazia confessionale” pur con tutte le cautele di questo mondo, sia per quanto riguarda il termine democrazia che per quanto riguarda l’aggettivo allegato. Così, secondo il sistema avviato dalla Costituzione (non troppo chiara) maturata dopo l’indipendenza del 1943 e aggiornata con l’Accordo di Taef del 22 ottobre 1989, il presidente della Repubblica deve essere un cristiano maronita (attualmente Michel Aoun, fondatore del partito Cpl); il capo del Parlamento uno sciita (oggi, anzi da 30 anni, il leader del partito Amal); il capo dell’esecutivo un sunnita, in questo caso l’indipendente Hassan Diab, che succede a Saad Hariri, figlio del grande e amato leader Rafik, ucciso dai siriani nel 2005, a capo della Corrente del Futuro.
Alla formazione del nuovo governo si è arrivati dopo tre mesi di blocco del Paese dovuto alle manifestazioni di piazza: era il 17 ottobre quando cortei e barricate bloccarono il Paese. Tali manifestazioni all’inizio furono assai impressionanti per la dimensione e la forza propositiva, che costrinsero alle dimissioni il governo Hariri (il 28 ottobre), accusato di essere corroto e incapace. Le manifestazioni, lo si ricorderà, avevano preso l’avvio dalla sciagurata e ingenua nuova tassa proposta del ministro delle Telecomunicazioni sulle conversazioni audio via WhatsApp, decisione assai discutibile dal punto di vista giuridico ma soprattutto maldestramente impopolare, visto che in Libano la messaggistica vocale è diffusissima, quasi una mania nazionale. Per di più, la tassa doveva essere pagata in dollari (6 al mese), nel momento in cui la lira libanese (da anni bloccata dal governo ad un tasso praticamente fisso di 1507 lire per 1 dollaro) crollava nel mercato parallelo, perdendo a tratti anche il 50% del proprio valore.
La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ma il malcontento popolare era da anni a livelli di guardia, per una crescente corruzione (sia di alto livello, sia di livello infimo) e per la manifesta incapacità di governare messa in piazza da ministri e parlamentari, beneficiati peraltro da stipendi inverosimili ripetto al lavoro profuso e alle competenze acquisite. La corrente elettrica in Libano non viene assicurata 24 ore su 24 dallo Stato, che non possiede centrali sufficienti, integrata perciò da gruppi generatori locali, residui del tempo di guerra, rumorosi, inquinanti e spesso inefficaci (impossibile, ad esempio, accendere d’estate i condizionatori quando la corrente non è quella statale). La raccolta delle immondizie è regolare, ma le discariche sono a cielo aperto, se non addirittura a mare aperto. Internet funziona bene solo con le cellule dei telefonini, mentre sul fisso è simile a un continuo singhiozzo. Per non parlare dell’acqua, che arriva nelle case sulla rete pubblica solo poche ore al giorno, cosicché tutti i condomini debbono ricorrere al supporto di autobotti private. E via dicendo.
In questo contesto di rivolta popolare, il sistema politico non è riuscito a creare un governo in tre mesi di trattative infinite, in cui si è espressa in modo lampante l’incapacità del modello di “democrazia confessionale” (che contempla rappresentanze parlamentari di 18 comunità religiose) di evitare una penosa “spartizione della torta”, se non altro di poltrone. In questo gioco non si sa chi abbia avuto più peso. Certamente lo spettacolo è stato pietoso, con continui veti incrociati, ricerca di posizioni tali da poter bloccare ogni disegno di legge non confacente a uno schieramento o all’altro, e accuse reciproche di sabotare la possibilità stessa di un governo. Tra i leader più contestati dalla folla vanno segnalti Berry, capo di Amal, e Bassil, capo del Cpl, il partito del presidente, di cui il politico in questione ha sposato la figlia.
La spesso inconfessata ragione del blocco politico del Libano è la presenza nello scacchiere politico del partito filo-iraniano di Hezbollah, spina nel fianco degli israeliani, odiati dagli Usa, assolutamente detestati dall’Arabia Saudita. Un partito particolare, con stretti legami con la Siria di Assad, dotato di un vero e proprio esercito, quello che fece vedere i sorci verdi agli israeliani nel 2006. La popolazione libanese è divisa sulla presenza ingombrane degli sciiti di Hezbollah, che controllano militarmente buona parte del Libano meridionale. Il campo cristiano si è così diviso tra i seguaci di Aoun e del suo clan, che sdoganando gli Hezbollah è riuscito a farsi eleggere presidente, e quelli del blocco delle Forze Libanesi della famiglia Geagea e del Kateb della famiglia Gemayel. Queste due ultime formazioni non sono entrate nel governo, Governo che, almeno, non ha ministri del precedente esecutivo e ha sostanzialmente solo “tecnici” (le due richieste erano considerate dalla folla in rivolta come ineludibili), ma comunque tecnici graditi ai partiti che lo sostengono (e questo la piazza non l’accetta).
Già questa lunga spiegazione della nascita del governo Diab e delle manovre sottostanti indica che il futuro dell’esecutivo è estremamente dubbio: si aggiungono la continuazione delle proteste popolari, diventate violente (in una sola serata si sono contati 400 feriti); la necessità per il governo di prendere misure valutarie drammatiche (si parla di una maxi-svalutazione) che potrebbero scatenare ancor più le proteste; la scarsissima considerazione internazionale del nuovo governo, che avrebbe bisogno di prestiti esteri, per il momento tutti bloccati; l’incertissima prospettiva di sfruttamento dei nuovi giacimenti di gas al largo delle sue coste, nel mirino anche di israeliani, ciprioti e soprattutto turchi; la necessità di ridare fiducia a un Paese in preda a una violenta crisi di nervi, basandosi però su una credibilità scarsissima; le inevitabili ingerenze estere che hanno distrutto il Paese negli ultimi decenni e che continueranno; la tristezza di genitori che spingono ormai i loro figli a cercare di costruirsi un futuro all’estero; il ruolo dei leader religiosi…
Eppure, sia concessa almeno questa chiosa di speranza, il Libano ha un popolo dalle risorse infinite, o quasi. Ha saputo rialzarsi dopo incidenti di percorso drammatici. Chissà cosa tirerà fuori dal cilindro ora, dal suo bacino di intelligenza, creatività e anche religiosità.