Libano, si può vivere senza Stato?
Tornare in Libano suscita inevitabilmente sorpresa. Accompagnato dallo stillicidio degli spacci di agenzia sui lanci di missili da parte di Hezbollah contro Israele e delle reazioni dell’esercito con la stella di Davide, fatte di bombardamenti e lanci di ogni sorta di ordigni, mentre imperversa una invisibile cyberwar, una guerra digitale, un visitatore mal avvertito avrebbe il terrore di finire nel pentolone infernale della tenzone che dal 1948, praticamente ininterrotta, imperversa su quella che era e resta una parte della Terra Santa, “terra di latte e di miele” di biblica memoria. E invece lo sbarco a Beirut è al solito affascinante, con l’aereo che sfiora l’abitato della città dal lato occidentale illuminato da un sole generoso e limpido. Le formalità di sbarco sono più rapide del solito (di turisti ce n’è proprio un nulla), la circolazione scorre caotica come sempre, su un asfalto che non conosce la segnaletica, né orizzontale né verticale.
Certo, le banconote che mi erano rimaste dal viaggio precedente valevano quasi cento dollari e ora ne valgono 3 (una banconota di 100 mila lire, il taglio più alto in circolazione, oggi vale un dollaro e pochi centesimi); certo, il centro commerciale progettato da Zaha Hadid giace immoto, ancora ferito dall’incendio seguito all’esplosione del porto del 4 agosto 2020; certo, numerosi locali e ristoranti di cui ricordavo l’esistenza sono scomparsi; e certamente il grande complesso residenziale di piazza dei Martiri, già frutto di corruzione edilizia, è abbandonato con le sue ricche elaborazioni architettoniche ferite dalla madre di tutte le esplosioni e dal degrado incipiente; certo, i giovani che conoscevo sono all’80% partiti all’estero per studiare o lavorare, e parlo soprattutto dei figli delle famiglie cristiane e casomai sunnite, gli sciiti restano; e certamente, di conseguenza, la demografia equilibrata che aveva fatto il Libano all’uscita dalla guerra civile – un terzo cristiani, un terzo sunniti, un terzo sciiti – è ormai un ricordo, si parla rispettivamente di 20, 30 e 50%; e non si può dimenticare che il Libano non ha presidente (per costituzione un cristiano maronita, mentre il premier è sunnita e il capo del parlamento sciita) da più di un anno…
Ma il Libano (almeno quello che va da Beirut verso nord, visto che il sud è in gran parte occupato da Hezbollah) sembra comunque ripartito, per l’ennesima volta, dalle proprie ceneri, è proprio il caso di dirlo. Si è inventato un’economia “anarchica”, “cash”, senza banche, con le banconote nascoste nei materassi, con un cambio ufficiale che fa ridere, con «le banche che sono solo delle parvenze di istituti di credito interni, funzionando solo nelle operazioni fuori dal Libano», come mi dice un direttore di banca che si dedica alla solidarietà, visto che in ufficio ha poco da fare. Dove trova la forza di ripartire ogni volta il Libano, come ha fatto nel 1990, nel 2006, nel 2011 e ora nel 2024?
Il simbolo di questo Libano che riparte mi sembra un locale di Ashrafieh, il quartiere cristiano per eccellenza di Beirut, alla cui guida c’è Akram Nehme, un imprenditore, un ex combattente, un sostenitore risoluto della parte cristiana libanese, il quale ha messo assieme 300 persone che si sono iscritte con una quota consistente a un club: possono recarsi al suo ristorante o al suo bar in ogni momento del giorno e della notte – hanno il codice per entrare – e consumano a prezzi bassissimi, godendo dell’amicizia calorosa di queste parti; nelle cucine del locale, però, vengono cucinati ogni giorno circa 300 pasti caldi che vengono portati a domicilio dagli uomini del delivery, ex militari che hanno visto il loro stipendio crollare del 90%, mentre nel locale lavorano 28 persone che altrimenti non saprebbero come cavarsela. E così si guadagnano soldi anche per offrire pasti a prezzi stracciati per chi non può nemmeno pagare 5 dollari per il pranzo.
C’è un dettaglio che mi ha colpito: sono decine gli emigrati libanesi all’estero che hanno lasciato i loro vecchi in Libano, e che attraverso questo servizio assicurano un pasto degno ai loro cari e, soprattutto, consentono un “controllo” del loro stato di salute, pur a distanza. Il Libano cristiano e sunnita è infatti diventato un Paese di vecchi, in questo senso ormai simile alle nostre nazioni europee in crisi di natalità. Ma anche all’estero i figli dei cedri fanno figli, e prima o poi torneranno. Il Libano conta 4 milioni di persone in patria (più un milione circa di immigrati siriani, dal 2011, e 400 mila palestinesi nei campi, dal 1948), mentre 8 milioni sono gli emigrati libanesi di prima e seconda generazione, e altrettanti di terza o quarta. Ancora col diritto di voto nel loro villaggio: le liste elettorali vengono riviste solo per i morti, mentre la sede di voto è sempre il villaggio di origine. I libanesi all’estero hanno un amore incondizionato e insopprimibile della patria, e una o due volte all’anno ci ritornano, portando valuta pregiata e una carica di affetto repressa troppo a lungo…
Quindi l’ultima parola sul Libano non è ancora detta, nemmeno questa volta. Bisognerà senza dubbio risolvere il rebus politico, far cessare le intrusioni di potenze estere nella vita interna del Paese, per ricostruire una classe dirigente che non sia corrotta, anzi al limite o forse ben oltre i comportamenti mafiosi, che la correttezza economica sia assicurata, che le finanze dello Stato funzionino, che le compagnie telefoniche siano libere e non foraggino più i partiti, che l’elettricità statale sia assicurata, che la classe media sia riabilitata (oggi il 20-30% della popolazione è ricca, e il 70-80% fatica ad arrivare a fine mese)… Ma intanto il Libano ha per l’ennesima volta innestato la modalità “sopravvivenza”.
Grande Libano!