Il Libano rischia la fame
Il 22 maggio scorso alcune decine di dimostranti, respinti dalla polizia, hanno tentato di occupare il ministero dell’Energia libanese, a Beirut. Nei giorni precedenti si erano moltiplicati più del solito i blackout di energia elettrica. Ma non si tratta solo di un episodio isolato, la situazione in Libano è seriamente preoccupante.
La protesta sociale antigovernativa è iniziata il 17 ottobre 2019 ed ha visto in piazza per settimane quasi la metà della popolazione. L’allora premier Hariri aveva rassegnato le dimissioni una decina di giorni dopo. Il nuovo premier, che a fine dicembre ha accettato di raccogliere la patata bollente della difficilissima situazione economica e politica libanese, è Hassan Diab, ingegnere 61 enne, docente alla prestigiosa American University of Beirut ed ex ministro della Pubblica istruzione dal 2011 al 2014.
Invece di raffreddarsi, però, la patata è diventata rovente: il 9 marzo, per la prima volta nella storia del Paese (indipendente dal 1946), il governo ha dovuto dichiarare default per l’impossibilità di pagare una tranche in scadenza di debito pubblico per 1,2 miliardi di dollari. Negli stessi giorni è esplosa la pandemia di Covid-19 (ufficialmente i contagiati sono attualmente poco più di 1100, circa 400 i malati e 26 i morti) e per il lockdown si è fermato tutto o quasi.
Quello che non si è fermato è purtroppo il pericoloso crollo dell’economia libanese, da anni in crisi anche per l’enorme afflusso di rifugiati, circa 1,6 milioni in un Paese che ha meno di 5 milioni di cittadini residenti. Il debito pubblico è diventato uno dei più elevati al mondo, raggiungendo il 170% del Pil (che è stimato in calo del 12%), e il debito estero è salito a 83 miliardi di dollari.
La lira libanese è crollata in pochi mesi passando dallo storico rapporto con il dollaro, mantenuto per oltre 20 anni a 1500 lire per un dollaro, all’attuale stima di 4200 lire per dollaro. Ma il biglietto verde statunitense è scomparso dalle tasche dei cittadini (un po’ meno dalle banche libanesi che però li tengono per sé), sulle quali si reggeva fino al 2018 l’economia del Paese. Già, le banche: da mesi ormai rifiutano non solo di convertire lire in dollari, ma soprattutto non consentono neppure ai libanesi che hanno dei fondi depositati di accedervi. Tra le conseguenze più immediate di tutto ciò, la disoccupazione avrebbe superato il 35% e almeno il 45% della popolazione (forse sono stime un po’ eccessive, ma non sono troppo lontane dalla realtà) vivrebbe ormai al di sotto della soglia di povertà.
In questa situazione, il lockdown ha dato il colpo di grazia al turismo e al commercio. Per cercare di evitare il collasso completo dello Stato, peraltro da tempo afflitto da corruzione e malagestione, il premier ha recentemente fatto appello all’Fmi, ben sapendo che non si tratta affatto di un ente benefico. Ma non si vedono alternative. Perfino Nasrallah, leader di Hezbollah, il principale partito sciita che appoggia il governo, dopo un’iniziale diffidenza ha riconosciuto che non c’è altra via per cercare di salvare il salvabile.
Hassan Diab, pur criticato da metà Paese di avere sposato la causa dei potenti inamovibili al potere, se non altro, sembra avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Un articolo molto chiaro e puntuale, firmato dal premier, è apparso il 20 maggio scorso sul Washington Post. «Un tempo granaio del Mediterraneo orientale – scrive il premier libanese –, il Libano si trova ad affrontare una drammatica sfida che sembrava inimmaginabile un decennio fa: il rischio di una grave crisi alimentare».
«Il Libano e il suo popolo – prosegue – sono stati colpiti da una tripla crisi. In primo luogo, a causa di una cattiva gestione politica e di una corruzione decennale, c’è stata una drammatica mancanza di investimenti nel settore agricolo, che rappresenta un quarto della forza lavoro nazionale, ma solo il 3% della nostra produzione economica… In secondo luogo, il Libano sta attraversando una crisi economica e finanziaria senza precedenti… In terzo luogo, la crisi di Covid-19 e il necessario blocco hanno drammaticamente aggravato la crisi economica e interrotto profondamente la catena di approvvigionamento alimentare…».
E il premier libanese conclude in una prospettiva che guarda oltre il Libano: «Gli Stati Uniti e l’Unione europea dovrebbero istituire un fondo di emergenza per aiutare il Medio Oriente ad evitare una grave crisi alimentare; in caso contrario, la fame potrebbe innescare un nuovo flusso migratorio verso l’Europa e destabilizzare ulteriormente la regione… La sicurezza alimentare sta diventando una crisi globale che richiede una risposta globale coordinata».
Parole forse condivisibili, almeno in parte, ma che fatti stanno seguendo a tali denunce? Poco o nulla. Le ragioni della crisi libanese sono molteplici e vengono da lontano. Probabilmente non sarà questo governo a risolvere i problemi che oramai vengono nominati non solo nelle piazze, ma anche nelle sedi istituzionali – corruzione, malgoverno, interessi privati, sistema bancario opaco, mancanza di senso dello Stato, condizionamenti esteri pesanti (Iran in testa), politica israeliana di demonizzazione del Paese… –, il che fa sperare che prima o poi finisca il “sacco del Libano” iniziato già nel dopoguerra, nel 1990. Ma quando?