Libano, protestano anche i leader religiosi
Negli stessi giorni di fine gennaio in cui a Tripoli, nel nord del Libano, esplodeva una nuova rivolta anti-governativa (con un morto, numerosi feriti e la sede municipale data alle fiamme) – ma apparentemente dovuta più alla protesta contro il lockdown e alla mancanza di lavoro e mezzi di sussistenza che alle consuete motivazioni di natura più politica che sociale -, un appello congiunto dei principali leader religiosi, cristiani, musulmani e drusi, veniva rivolto alla classe politica libanese, incapace di varare un governo in grado di affrontare le tante situazioni critiche che sono sotto gli occhi di tutti e che stanno portando il Paese dei Cedri al collasso.
L’appello è stato sottoscritto anche dal patriarca maronita (cattolico) Bechara Boutros Rai, dal metropolita greco-ortodosso di Beirut Elias Audi, dal mufti (sunnita) Abd al-Latif Derian, dal capo del consiglio supremo sciita Abd al-Amir Qabalan e dallo sheikh druso Akl Naim Hassan. Vale a dire da alcuni dei più importanti leader religiosi del Libano, anche se non gli unici di un piccolo Paese (circa 4,5 milioni di cittadini, più due milioni di profughi, ma fuori conteggio) che riconosce ufficialmente la presenza nel proprio territorio di 18 confessioni religiose (che poi di fatto sono 17 dato che gli ebrei del Libano, un tempo numerosi, se ne sono andati praticamente tutti).
L’appello dei leader religiosi firmatari non fa sconti a nessun partito, quasi a fare eco alla radicale richiesta della thawra popolare che da oltre un anno chiede a tutta la classe politica libanese di levarsi di mezzo, precisando che l’invito è rivolto a killun, yani killun (tutti, che vuol dire tutti). Con un milione di profughi siriani, dopo il default dello Stato (con il debito pubblico ben oltre il 150%) e delle banche, e la svalutazione della moneta che ha superato l’80%, dopo le esplosioni di Beirut in agosto e in mezzo ad una pandemia con punte di quasi 6 mila nuovi contagi al giorno (nella seconda metà di gennaio 2021) ed oltre 3 mila morti, con gli ospedali in affanno, una disoccupazione a livelli vertiginosi e il rischio che moltissimi giovani se ne vadano appena la pandemia concederà uno spiraglio, la classe politica ancora non riesce a trovare l’accordo per formare il governo del Paese.
I leader religiosi libanesi affermano in sostanza: non è più tempo di accampare veti incrociati, di lamentare dissidi e colpe altrui, cercando come applicare la solita logica spartitoria. Con la coscienza di un pericolo per la stessa sopravvivenza di uno Stato libanese indipendente, i firmatari dell’appello chiedono a tutti di «lavorare immediatamente per formare un governo di salvezza nazionale, che non risponda a tornaconti individuali o settari», e concludono l’appello ammonendo che «il popolo non perdonerà e la storia non dimenticherà» quanto potrebbe accadere a causa di ulteriori rinvii.
Sui possibili sviluppi della situazione libanese esprimeva un’interessante prospettiva, all’indomani dell’esplosione al porto di Beirut, l’ex ambasciatore italiano in Libano (dal 1998 al 2002), Giuseppe Cassini (ilriformista.it dell’11 agosto 2020): «Il Libano può avere un futuro solo se cambia radicalmente il suo sistema politico-costituzionale, superando la logica confessionale. La ricostruzione non è solo un fatto finanziario, ma è legata a un cambiamento delle regole istituzionali». E aggiungeva: «…Bisogna che [il Paese] cambi completamente la sua Costituzione, come giustamente ha rimarcato [il presidente francese] Macron. Questo è il punto su cui nei prossimi mesi si verificherà se il Libano è capace di cambiare totalmente quel sistema di corruttela legato a un sistema democratico imperniato su 17 sètte [sic!] religiose».
E le premesse per questo grande cambiamento culturale, anche grazie alla crisi, si sono realizzate nella gente, soprattutto nei giovani, che si sentono prima di tutto cittadini libanesi e solo in seconda istanza anche appartenenti ad una confessione religiosa, a differenza dei politici navigati vecchia maniera che appaiono ormai incapaci, la gran parte, di immaginare un Libano fuori dalle logiche spartitorie intimamente connesse alla frammentazione confessionale che la guerra del 1975-1990 aveva aumentato e congelato.
La presa di posizione unitaria dei leader religiosi libanesi (pur con i dovuti distinguo interpretativi non solo giustificabili, ma doverosi e identitari), a ben pensarci va in questa direzione: siamo libanesi e quindi ci importa il bene comune del Paese. Le differenze vengono dopo, e per di più come valore aggiunto.