Libano, la menzogna vincerà ancora?
Una doppia esplosione di una violenza estrema ha colpito ieri, martedì 4 agosto, intorno alle 18 e 10 locali, la zona vicina al porto della capitale libanese Beirut, devastando la città nel raggio di quattro-cinque chilometri (il che la dice lunga sulla potenza dell’esplosione) e lasciando sul terreno –secondo cifre da bollettino di guerra, ancora provvisorie, del ministero della Salute –, più di 100 morti e quasi 4 mila feriti. «È un disastro – ha detto il ministro della Salute Hamad Hassan –, gli ospedali della capitale, già collassati per il coronavirus in crescita notevole nelle ultime settimane, sono tutti pieni di feriti». Mentre il premier Diab, discusso e impotente di fronte ai tradizionali equilibrismi della politica libanese, ha fatto appello martedì sera all’aiuto internazionale.
Il Consiglio supremo della difesa afferma che le esplosioni sono state causate dall’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio accumulate in alcuni depositi del porto, un materiale usato per realizzare esplosivi ma anche fertilizzanti. In precedenza il direttore generale della Sécurité Générale, Abbas Ibrahim, aveva dichiarato che le esplosioni, avvenute in un magazzino del porto, erano probabilmente causate da «esplosivi confiscati da anni».
Secondo numerosi video pubblicati sui social, prima dell’esplosione era già in atto un incendio negli edifici sulle banchine del porto di Beirut. Una deflagrazione potente ha quindi provocato un’enorme bolla che poi è mutata in un’altissima colonna di fumo, presumibilmente quando l’incendio ha raggiunto il magazzino contenente nitrato di ammonio. L’onda d’urto ha fatto danni nel raggio di alcuni chilometri, mentre l’esplosione è stata sentita in tutto il Libano e fino in Siria, Israele e Cipro.
Nella città la maggior parte dei feriti, che si contano a migliaia, sono stati provocati in effetti non dall’esplosione in sé, ma dall’onda d’urto che ha fatto collassare le tante pareti di vetro e metallo dei palazzi beirutini, soprattutto delle tante torri costruite negli ultimi anni di speculazione edilizia. Scene apocalittiche di gente insanguinata sono state viste in tutta Achrafieh, il quartiere cristiano di Beirut Est, mentre la gente cercava di farsi curare negli ospedali collassati della città, all’Hotel-Dieu, dagli ortodossi, a Ghetaoui, al Clémenceau.
Quale la causa dell’esplosione? Al solito, si cercherà una versione “accettabile”, cioè plausibile, da dare in pasto all’opinione pubblica: la deflagrazione di un deposito di nitrato di ammonio, in questo caso. Materiale che però non esplode così, da solo. Appare evidente dal tipo di esplosione, dalla potenza della deflagrazione, dall’incredibile tempestività dell’evento (alla vigilia della sentenza dell’Aja sull’attentato a Rafik Hariri del 2005), dalla concomitanza con la gravissima crisi politica, sociale, sanitaria ed economica che il Paese attraversa dal 17 ottobre 2019 (giorno dell’esplosione della cosiddetta Thaoura, la rivoluzione contro corruzione e malgoverno), dalla impotenza dell’esecutivo… Appare così probabile, se non evidente, come le radici della tragedia attuale vadano cercate nella difficilissima situazione internazionale del Libano. Le ragioni ultime del probabile attentato (ma, come sempre nelle faccende libanesi, non si saprà mai quel che realmente è successo) vanno perciò ricercate nella contrapposizione che da decenni oppone il fronte pro-Iran a quello pro-Israele nella terra dei cedri.
Nella regione, va detto una volta per tutte, da decenni è in corso una vera e propria Terza guerra mondiale a pezzi, non una guerra civile, ma una guerra contro i civili, concentrata in fazzoletti di terra come Libano, Siria ed Iraq, in cui tutti i grandi attori regionali e internazionali sono all’opera direttamente o indirettamente. In questo senso siamo in presenza di una guerra mondiale, tutti ci sono, se non altro per vendere armi o fare affari nelle ricostruzioni susseguenti. Perché proprio qui? Perché c’è petrolio, c’è gas, c’è acqua, c’è una posizione strategica che fa gola ai “grandi” di questo mondo. Attenzione, le offerte di aiuto provenienti proprio dai Paesi che si stanno combattendo nella regione non sono dichiarazioni di innocenza, non bastano a dichiarare estranei ai fatti le filiere militari e di intelligence dei due schieramenti.
Dal 1975 il Libano è esemplificazione di una lotta che supera largamente i confini nazionali, ma che entro i suoi stessi confini trova dei terminali che l’esaltano: 18 comunità etnico-religiose riconosciute nel Paese faticano certamente a convivere, ma potrebbero riuscirci a condizione di essere lasciate in pace, solo se si evitasse di trasformarle in terminali di interessi di potenze straniere. C’è perciò da sperare che questo ennesimo atto di efferatezza spinga la comunità internazionale ad assicurare al Paese dei cedri uno statuto di protezione, allargando in qualche modo la zona attualmente controllata dall’Unifil, la forza Onu che dal 2006 assicura la pace a sud, tra Hezbollah e israeliani. Un’iniziativa nella cui ideazione grande parte ebbe lo Stato Italiano e l’allora premier Prodi. Il Libano è così complesso che la sua libertà va protetta.