Il Libano guarda all’Onu e alla diaspora

Nel terzo anniversario dell’esplosione del porto di Beirut, sulla cui responsabilità non si riesce neppure ad indagare, il crollo del sistema-stato, insieme all’economia, sembra inarrestabile. Il principale sostegno ai libanesi in patria arriva da connazionali sparsi nel mondo.
Palazzo del Parlamento a Beirut (wikipedia Heretiq CC BY-SA 2.5)

Sono passati 3 anni da quel 4 agosto 2020, quando nel porto di Beirut esplosero 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio, che erano state sequestrate nel 2013 su un mercantile russo battente bandiera moldava. E stivate nel 2014 in un silos, accanto a migliaia di tonnellate di grano.

Durante quei 7 anni, per 6 volte qualcuno aveva fatto notare la pericolosità di quel deposito di esplosivo. Ma nessuna autorità aveva risposto, né tantomeno era stata avviata un’azione qualsiasi. Nell’orrenda esplosione del 2020 persero la vita oltre 200 persone (chi dice 220, chi di più), ci furono oltre 7 mila feriti (alcuni rimasti invalidi), 300 mila sfollati a causa delle abitazioni distrutte o inagibili, danni approssimativamente calcolati in 3 miliardi di dollari.

Che nessuno a livello governativo sapesse dell’esplosivo abbandonato (o nascosto?) è impossibile, eppure i 2 giudici che hanno tentato in questi anni di stabilire delle responsabilità sono stati rallentati, ostacolati e alla fine sdegnosamente bloccati da indignati politici e magistrati. Dopo 3 anni non c’è nessun responsabile, neppure di negligenza. Alcuni impiegati del porto arrestati, sono stati rilasciati in modo arbitrario poco tempo fa.

Il problema, purtroppo, non è però soltanto il singolo fatto, sebbene gravissimo. Lo si intuisce senza difficoltà dal crollo progressivo dell’intero Paese, percepibile a partire dal 2019 ed “esploso” non solo letteralmente il 4 agosto 2020. Debito pubblico fuori controllo e default dello Stato, inflazione a 3 cifre, povertà che supera l’80%, banche fallite tenute forzosamente in piedi, economia sottozero. A livello politico-istituzionale, la presidenza della repubblica è vacante e il governo è dimissionario e può operare solo per l’ordinario (che cosa sia l’ordinario in un Paese fallito è molto difficile da stabilire).

La notizia paradossalmente positiva è stata una risoluzione del Parlamento europeo sul Libano del 12 luglio scorso, che, sebbene quasi del tutto ignorata dalla stampa, è considerata dai parenti delle vittime una “vittoria morale”. Ne parla su AsiaNews il giornalista libanese Fady Noun: la risoluzione, adottata a larga maggioranza, denuncia la “cultura dell’impunità” che regna in Libano e ritiene «imperativo, in queste circostanze, istituire una missione internazionale di accertamento dei fatti, autorizzata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unhcr)».

In Libano vi è stata una presa di posizione in questo senso di 162 organizzazioni libanesi e internazionali per i diritti umani e di associazioni dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime: gruppi che hanno esortato i Paesi membri del Consiglio di sicurezza Onu ad «adottare una risoluzione in tal senso».

Negli ultimi giorni di luglio, poi, è crollato un’altro pezzo di stato, e – viene purtroppo da dire – finalmente: il governatore della Banca centrale del Libano, Riad Salamé, si è ritirato, sommerso da una dozzina di inchieste internazionali aperte contro di lui non solo in Libano ma anche in Europa e ricercato dall’Interpol per malversazione di fondi pubblici e riciclaggio di denaro.

Salamé è stato ininterrottamente in carica come governatore per più di 30 anni, ed era stato per molto tempo osannato per la sua presunta abilità finanziaria: adesso è accusato di aver architettato qualcosa di simile ad un gigantesco “Schema Ponzi”. Il metodo ideato da Carlo Ponzi (1882-1949) negli Usa, negli anni ‘20 del 900, è significativamente noto in inglese come “rubare a Pietro per pagare Paolo”.

Ma la cosa sconcertante è che il tentativo di nominare un nuovo governatore si è rivelato impossibile per il veto opposto da una parte dei ministri, che affermano che un governo ad interim (quello di cui fanno parte!) non è abilitato a designare il governatore della Banca di Stato, tanto più che da ottobre 2022 il Libano non ha più un Presidente della Repubblica, al quale spetta la nomina.

E sull’elezione del nuovo Presidente della Repubblica le fazioni parlamentari non trovano (né lo vogliono trovare, a quanto pare) da quasi un anno l’accordo politico. Ci sarebbe bisogno di tanta aria nuova dentro lo Stato, ma è molto difficile senza far saltare per aria gli accordi istituzionali sui quali si fonda la repubblica, che sono rigidamente confessionali (spartizione del potere e delle cariche fra maroniti, sciiti, sunniti e drusi) e soprattutto legati a potenze regionali e non solo.

Stiamo parlando degli Accordi di Ta’if (1989) che hanno permesso la fine della Guerra del Libano (1975-1990): se saltano, cosa potrebbe succedere? Ma se non saltano, cosa ne sarà dei libanesi?

In questo rompicapo, la salvezza per i libanesi che vivono in patria sembra essere riposta soltanto nei molto più numerosi libanesi che vivono all’estero, sparsi nei 5 continenti. Molti di loro non hanno mai smesso di sostenere i parenti rimasti in patria, anzi gli ultimi fuoriusciti sono espatriati per questo. Sono soprattutto le rimesse della diaspora libanese, una delle più grandi al mondo, che consentono al Libano di non sprofondare.

Costruita in più di un secolo, la diaspora libanese è considerata come un bacino di circa 14 milioni di persone, espatriati e discendenti fino alla quarta generazione, rispetto ai 4,2 milioni che vivono in Libano (affiancati da un paio di milioni di profughi vari, soprattutto siriani e palestinesi, ma questo è un altro problema, se possibile non meno complicato del precedente).

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