Libano, dimissioni Hariri: “Dio aiuti il Libano”

La settimana scorsa, a Beirut, il presidente del consiglio incaricato, Saad Hariri, ha rinunciato al mandato di formare un governo. Il Libano sta crollando sotto i colpi della crisi economica e politica. Ma non si intravvedono per ora vie d’uscita.
Michel Aoun (a sinistra) e Saad Hariri (a destra) (Dalati Nohra/Lebanese Official Government via AP, File)

Saad Hariri ha gettato la spugna. Giovedì 15 luglio, il politico libanese incaricato il 22 ottobre 2020 di formare un governo, ha rimesso il mandato al Presidente della Repubblica, Michel Aoun, dopo 9 mesi di tira e molla. Nella conferenza stampa seguita all’incontro istituzionale, l’esponente del Movimento il Futuro (Tayyar al-Mustaqbal), da lui stesso fondato nel 2005, ha detto fra l’altro per spiegare la sua rinuncia all’incarico: «Il presidente ha proposto dei cambiamenti che avrebbero stravolto la composizione dell’esecutivo. Gli ho chiesto se aveva bisogno di più tempo per riflettere, ma è ovvio che la sua posizione non è cambiata e che non potremo mai intenderci. Che Dio aiuti il Libano».

Saad Hariri (Dalati Nohra via AP)

E davvero sembra che resti solo Dio in grado di aiutare il Paese dei Cedri. Dopo il default dello Stato con un debito pubblico al 174% del Pil, l’inflazione al 160% annuo, la moneta svalutata del 90% (dati Banca Mondiale), la rivolta popolare (thawra) all’insegna del kullun yani kullun (tutti significa tutti: cioè l’intera classe politica), la disoccupazione oltre il 40%, metà della popolazione sotto la soglia di povertà, la pesante e ormai cronica carenza di carburanti, energia elettrica, acqua, cibo e medicinali, e 2 milioni di profughi (siriani e palestinesi) da decenni letteralmente accampati in un Paese di 4,5 milioni di abitanti, molti dei quali contano per vivere quasi esclusivamente sulle rimesse dei libanesi all’estero o su aiuti umanitari.

Un altro elemento ineludibile che grava sulla situazione libanese è il procedimento giudiziario bloccato sulle responsabilità riguardanti l’esplosione del porto del 4 agosto 2020 con i suoi oltre 200 morti, 7 mila feriti e miliardi di danni. I familiari delle vittime dell’esplosione sono stati dispersi alcuni giorni fa dalla polizia sotto casa del ministro dell’interno Fahmi, che continua a sottrarsi alla giustizia e ad invocare l’immunità per sé e per altri personaggi istituzionali che sarebbero a conoscenza dei fatti. Ad un anno dall’esplosione, nessun passo avanti è stato fatto nel processo.

In un quadro di questo tipo, con aiuti internazionali promessi per centinaia di milioni (pochi, ma meglio di niente) a condizione di varare un governo del Paese che gestisca la situazione, la risposta della politica è l’immobilismo.

Pur senza cadere nel complottismo, viene da pensare che c’è dell’altro. E certamente c’è ben altro: siamo pur sempre in Medio Oriente. Ma nessuno è in grado di capire veramente fino a che punto quest’altro possa bloccare e annientare un Paese che era conosciuto fino a metà degli anni 70 come “la Svizzera del Medio Oriente”.

Si può al massimo tentare di elencare qualche elemento di questo “altro” che da fuori grava pesantemente sul disastro interno libanese e sulla sua classe politica ormai squalificata agli occhi della popolazione. Una classe politica ritenuta ormai incapace di riformare lo Stato e le regole che fino ad ora ne hanno in qualche modo retto le sorti.

Sostenitori di Hariri contro i soldati libanesi (AP Photo/Hussein Malla)

Uno degli elementi esterni che incide fortemente sulla situazione libanese lo ha indicato senza mezzi termini lo stesso Hariri nella conferenza stampa del 14 luglio: «Il principale problema di questo Paese è Michel Aoun che è alleato con [il partito sciita] Hezbollah che a sua volta lo protegge». A prescindere dai legami di Hariri con l’Arabia Saudita (peraltro ultimamente non più così evidenti), certamente la presenza del “Partito di Dio” filoiraniano (dotato di proprie milizie armate), considerato terrorista da Israele, Usa e Ue, condiziona moltissimo la percezione dello “schieramento” libanese. Bisogna tener conto, naturalmente, che in Medio Oriente è impossibile restare fuori dai durissimi giochi di potere delle potenze internazionali e di quelle regionali ad esse collegate.

Secondo il politologo libanese Gerard Dib, in un articolo di questi giorni sul quotidiano libanese an-Nahar, la situazione in Libano è il risultato delle sanzioni occidentali alla Siria e del boicottaggio arabo per evitare che il Libano cada nella sfera d’influenza iraniana, russa o cinese.

Un altro non secondario tema che incide sulle vicende libanesi è inoltre il gas. Quello che sta mobilitando potenze, gruppi, interessi nel Mediterraneo orientale. E su questo tema, oltre allo scontro senza soluzione con Israele sui confini marittimi, il piccolo Libano ha da vedersela con i consistenti appetiti della Turchia e la sua tenace politica di espansione nella regione.

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