Lia Tagliacozzo, l’aggressione antisemita e il dovere di ricordare

Raid antisemita on line durante la presentazione dell'ultimo libro di Lia Tagliacozzo. La storia della sua famiglia deportata ad Auschwitz e il dovere civile della memoria. Nostra intervista.
Lia Tagliacozzo (da pagina Facebook personale)

L’antisemitismo è ancora diffuso e sono ancora tanti gli episodi violenti, in maggior numero via web. Nel corso della presentazione online, il 10 gennaio, del suo ultimo libro La generazione del deserto Storie di famiglia, di giusti e di infami durante le persecuzioni razziali in Italia edito da Manni edizioni  è accaduto quello che oggi si chiama uno zoombombing, un raid con ingiurie contro gli ebrei. Come lo ha vissuto?

L’episodio è stato violento e intrusivo: ero collegata da casa durante la presentazione su una piattaforma digitale in cui siamo costretti dalla pandemia, ero nel mio ambiente, in un contesto privato e ho abbiamo subito ingiurie e parole irripetibili di stampo nazifascista. La prima impressione è stata di grande sconcerto, poi è subentrata la rabbia e, più giorni passano, più la rabbia aumenta. La cosa importante però è che nel giro di pochi minuti li abbiamo ridotti al silenzio e allontanati dalla piattaforma. Dopo la presentazione è andata avanti  regolarmente e questo mi sembra il risultato importante.

Nel suo libro racconta anche la storia di parte della sua famiglia scomparsa ad Auschwitz, cosa è accaduto?

 Il libro ha due piani narrativi diversi, il primo è la storia delle mie famiglie, al plurale, prima durante la discriminazione razziale e dopo nella persecuzione. Le famiglie sono tre perché sono la mia famiglia paterna e due delle mie famiglie materne. Una storia ha luogo a Roma, due tra la Toscana e la Svizzera come luogo di esilio in campi di internamento. Anche chi ha avuto salva la vita in Svizzera non ha avuto una vita facile. La famiglia romana è stata devastata dalle deportazioni: il 16 ottobre del 1943 nella grande razzia degli ebrei di Roma sono state catturate la mia bisnonna con lo zio di mio padre e la sorellina di papà, Ada, la bambina che sarebbe dovuta diventare mia zia. Poi, a febbraio del 1944, mio nonno è stato denunciato da un “amico” ma all’appuntamento, insieme all’amico traditore ha trovato un uomo della milizia fascista e un nazista. Lo hanno portato nel carcere di Regina Coeli, poi nel campo di internamento di Fossoli, in provincia di Modena dove venivano concentrati gli ebrei prima di metterli sul treno che li avrebbe portati ad Auschwitz: la meta dove venivano condotti quasi tutti gli ebrei italiani anche se alcuni furono poi trasferiti in altri campi. La bisnonna, la piccola Ada vengono uccise all’arrivo. Lo zio è sopravvissuto fino a settembre. Di mio nonno, nel Libro della Memoria, gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945)  – edito da Mursia –  scritto da Liliana Picciotto è riportato che è morto in data e luogo ignoti. La cosa interessante è che si continuano a scoprire nuovi documenti e, con il procedere della ricerca, si avranno sempre maggiori studi. L’altro piano narrativo è la storia di come io ho scoperto e ricostruito queste vicende cercando di dar loro un significato unitario.

È nata 20 anni dopo che suo nonno Arnaldo è scomparso ad Auschwitz. Perché ha avvertito la necessità di raccontare il suo rapporto con il passato, l’identità, la memoria?

Per me era un atto dovuto soprattutto a me stessa, adesso è diventato un dovere civile. Sin da piccola ho desiderato scrivere ma quando io ero piccina i libri che parlavano della deportazione degli ebrei dall’Italia erano pochi così, prima ancora di scoprire esattamente cosa fosse successo ai miei famigliari, mi sono ripromessa di scriverne la storia. E questo è ciò che ho fatto: prima scrivendo libri per bambini che mi hanno consentito di andare nelle scuole di tutta Italia per raccontare le loro storie e ora con questo libro La generazione del deserto in cui ho cercato di ricostruire il più possibile della loro e della nostra storia. Il loro assassinio rimane ricordo indelebile.

«Mai perdonato, mai dimenticato», ha detto Liliana Segre in occasione de Il giorno della memoria. Lei ha perso il nonno e altri parenti, si può perdonare?

Mi ancoro alla tradizione ebraica che dice che il titolare del perdono è solo colui che ha subito l’offesa. I miei parenti non ci sono più e solo loro possono elargirlo. Io non dimentico.

Emanuele Filiberto ha chiesto scusa per le leggi razziste fasciste firmate da Casa Savoia. Meglio tardi che mai?

La lettera di scuse è vergata sotto lo stemma della Casa Reale. Per me quello stemma è fuori della storia, l’ultima parola l’ha data la Costituzione della Repubblica italiana, la questione è chiusa.

Che sapore ha per lei il Giorno della Memoria 2021?

Sono 20 anni dall’istituzione in Italia del Giorno della Memoria. Credo offra un’occasione importante per fare didattica, creare occasioni di racconto e soprattutto di studio. Con la scomparsa progressiva dei testimoni diretti, dei sopravvissuti, il compito che spetta a noi è soprattutto lo studio. È quello che ci resta come imperativo assoluto è proprio il dovere di studiare. Il Giorno della Memoria rappresenta sia la possibilità di dare voce a chi non c’è più con le loro parole nei libri e nelle registrazioni sia l’occasione di studiare il contesto che ha partorito la discriminazione non sono contro gli ebrei ma contro rom, sinti, omosessuali, malati mentali, o le così dette “razze inferiori”. Il razzismo ha origini antichissime nella storia dell’Occidente per questo riguarda qualsiasi cittadino non solo del nostro Paese ma dell’Europa intera. Non è un fatto privato tra gli ebrei e i nazisti, anzi non è assolutamente una eredità solo ebraica.

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