Lezione di vita di un nullafacente
L’incipit è spiazzante. C’è un cronico nullafacente, con una moglie malata, della quale dice: «… Per fortuna di un male incurabile». La fortuna – sostiene l’uomo – consiste nella consapevolezza di non dover fare nulla per provare a guarirla perché tanto, prima o poi, morirà lo stesso. Un cinismo che ha del metodo. Michele Santeramo, col suo testo teatrale “Il Nullafacente”, affronta un tema delicato, scomodo, coraggioso, anche per le implicazioni ad esso legato, e cioè quello della malattia e della morte. Ma il tono della sua scrittura, mai banale, intrisa di riflessioni profonde e di acutezza nel leggere il nostro mondo e di scavare nel quotidiano dell’esistenza, è sempre la leggerezza.
E quindi si sorride, anche, della storia di questo nucleo famigliare attorno al quale ruotano altri personaggi: un fratello, un medico e il proprietario della casa dove vive la strana coppia. Che vorrebbe essere lasciata in pace. E si trova costretta, invece, a fare i conti con l’irrompere di una realtà che non riesce ad arginare per la presenza insistente dei tre intrusi, ciascuno caratterizzato da ossessioni, punti di vista e comportamenti diversi, portatori di una comune morale ed etica, che i coniugi rifiutano di accettare. L’emblematico rappresentante della negazione di regole e comportamenti stabiliti, economici e sociali, soprattutto psicologici, in nome di una libertà necessaria, è l’uomo nullafacente, che si trascina da una poltrona a un tavolo, che parla con lentezza seguendo pensieri e parole che scartano qualsiasi preoccupazione, che esclude azioni impegnative, che banalizza ogni ricerca di intervento, che non compra e che non paga l’affitto.
Al centro di tutto c’è una visione anticonsumistica e anticapitalista del protagonista che va controcorrente rispetto a tutto ciò che invece del mondo ci condiziona: principalmente il tempo, motore della nostra epoca che ci richiede prestanza, efficienza, programmazione, che crea dipendenze, che ci distoglie dal pensare alle vere cose importanti, al presente, ma che non impedisce il percorso finale verso la morte. Sembra volerci ricordare tutto questo il protagonista nel suo elogio della lentezza e del dolce far niente, della rinuncia indolore, del vivere senza doversi preoccupare di nulla, che richiede comunque una severità comportamentale, e cioè metodo, applicazione, determinazione. Egli, sostanzialmente, cerca di capire cosa non fare, come impiegare le energie per stare bene. E per questo guarda al bonsai, interlocutore muto e oggetto di confessioni ad alta voce, pianta custodita e protetta come una creatura viva. Da essa acquisisce come imparare a farsi le domande e cercare le risposte; ad essa riconosce l’aver compreso dove sia la vita, la bellezza, dentro quella sua forma e quella costrizione che la fa essere.
Santeramo è appropriato nell’interpretare il suo stesso testo, per la flemma espressiva, per l’apatia che emana nei gesti e nelle parole, in equilibrio con la passione del suo credo, quasi una dimensione zen, un’ascetica per raggiungere uno stato di felicità. Accanto a lui Silvia Pasello, la moglie malata, dai toni dimessi, alla quale nel finale, avanzando una timida carezza, manifesterà il suo amore sul motivo della canzone “Io che amo solo te” di Sergio Endrigo, accennata dalle note del contrabbasso di Ares Tavolazzi. Il luogo è una stanza con un lungo tavolo, delle sedie e una poltrona, e un reticolo con gli altri personaggi sempre in scena – Michele Cipriani, Francesco Puleo, Tazio Torrini – in una geometria di movimenti tracciati dalla regia essenziale di Roberto Bacci al servizio della parola. Che pone domande di senso, dubbi e riflessioni.
“Il Nullafacente”, di Michele Santeramo, regia, spazio scenico Roberto Bacci, con Michele Cipriani, Silvia Pasello, Francesco Puleo, Michele Santeramo, Tazio Torrini, musiche Ares Tavolazzi, luci Valeria Foti. Produzione Fondazione Teatro della Toscana. A Bologna, Arena del Sole, dal 14 al 19 novembre.