L’Expo dello scarto

Immigrati alla stazione di Milano

Domenica scorsa, Mario Calabresi, in un bell’articolo di fondo sulla Stampa, dava gli ultimi numeri della questione immigrazione: «Lo scorso anno sono arrivati 170 mila migranti (nei primi cinque mesi e mezzo del 2015 erano 56 mila). Significa che gli arrivi sono pari a un migrante ogni tremila abitanti del nostro Paese. Negli ultimi tre anni in Turchia, nazione con 75 milioni di cittadini, i rifugiati arrivati dalla Siria e dall’Iraq sono stati oltre due milioni: uno ogni 35 abitanti. 200 mila sono arrivati in pochi mesi solo dall’area di Kobane, per sfuggire all’offensiva dell’Isis. I turchi per gestire una migrazione di questa proporzione stanno spendendo sei miliardi di dollari l’anno e la comunità internazionale collabora con solo 400 milioni di euro. In Libano sono rifugiati due milioni di siriani, una cifra immensa e spaventosa se si tiene conto che i libanesi sono solo quattro milioni. È come se da noi si scaricassero 30 milioni di rifugiati».

A questi dati dovremmo aggiungere il milione di libici immigrati in Tunisia a causa della guerra. I numeri sono impietosi e rivelano la falsità di molti luoghi comuni e in primis la retorica dell’Expo. Abbiamo detto in tutte le salse che attendevamo 20 milioni di visitatori e Milano e la sua stazione vanno in tilt per l’arrivo di alcune centinaia di profughi, in larghissima misura di passaggio dalla Siria verso il Nord Europa.

Il sindaco di Milano chiede, verrebbe da dire "supplica" il governo di non mandare profughi a Milano. Nella campagna elettorale del 2011 avevamo ascoltato da lui ben altre parole ed è lo stesso sindaco che ogni giorno ospita ad Expo decine di migliaia di persone. Una singolare ospitalità a luoghi e a giorni alterni. Si vuole rassicurare forse i cittadini e invece si moltiplicano i segnali di paura e di confusione, con una politica che non previene ma insegue gli eventi in modo grottesco.

Il mare di Ventimiglia sembra ratificare il morire dell’Europa, incapace per calcoli elettorali e politici, di dare accoglienza a qualche decina di rifugiati, imprigionati dalle interpretazioni e applicazioni spesso strumentali e spesso astute, degli accordi di Schengen. Lo scambio di battute tra ministri francesi e italiani certifica la morte di una grande politica europea piena di visione e di coraggio.

Le regioni, con le eccezioni di Liguria, Lombardia e Veneto, che forse pensano di essere Stato a sé, hanno fatto la loro parte, hanno seguito la prospettiva dei piccoli centri di accoglienza, la cui gestione da mille punti di vista è più efficace, accogliente, con maggiore sicurezza e con maggiore attenzione alle condizioni di salute dei migranti.

Le regioni invece devono rivendicare con orgoglio una politica che fa loro onore. Una politica di accoglienza e di diritti, anche se qualche prefetto ha vagheggiato grandi centri, pericolosi per l’ordine pubblico e al tempo stesso luoghi facili per interessi grigi, come mafia capitale ha provato.

Dobbiamo ricordare che la grande maggioranza dei 50 mila che sono arrivati in Italia nei primi sei mesi dell’anno non intendono fermarsi in Italia, ma vanno in altri Paesi verso il Nord. Dunque, in larga misura si tratta di gestire un passaggio. Perciò le misure non sono impossibili per un Paese del G7.

Rivendichiamo di essere un grande Paese europeo e siamo impantanati con gli altri Paesi europei e gli Stati Uniti nella crisi libica, che sembra essere senza soluzione e comunque i piani preparati dal rappresentante speciale delle Nazioni Unite falliscono sistematicamente. Varrebbe la pena di cambiarlo, visti i risultati a dir poco scadenti e varrebbe la pena che l’Italia assumesse la piena responsabilità politica della mediazione, con il sostegno delle Nazioni Unite. Fare presto, prestissimo e fare bene.

Senza la pace in Libia, in Siria e in Iraq è molto difficile fermare l’arrivo dei profughi, che in larghissima misura vengono da situazioni di guerra e di conflitto. Fare la pace è un dovere, il nostro dovere insieme ai grandi Paesi del mondo. In questo modo si combatte il terrorismo, che è la variante estrema della guerra.

Certi leader politici della destra de noantri parlano di cooperazione in Africa, in Tunisia, in Marocco, in Libia. Un po’ di pudore da parte di coloro che hanno ridotto quasi a zero i fondi della cooperazione italiana. Un po’ di rispetto verso Paesi che vivono una immane tragedia e hanno il diritto di non essere giocati in mediocri discussioni di cortile come la Libia, o che stanno vivendo una importante transizione democratica come in Tunisia.

Il Mediterraneo domanda e impone una grande politica, ben oltre il mare di Ventimiglia e la stazione di Milano. Una politica dell’inclusione e non dell’esclusione, dell’incontro e non dello scarto, della cooperazione e non dell’espulsione. Capisco che per diventare sindaci a Cologno Monzese si è pronti a fare ogni cosa, ma il nostro Paese deve avere la grande ambizione di una politica di sviluppo economico e di pace, che è l’unico modo di costruire futuro.

I cittadini di Milano, come quelli di Ventimiglia, che hanno fatto la spesa per i profughi, hanno mostrato più coraggio e senso della solidarietà dei politici con la felpa. Hanno avuto più visione di quelli che seminano la cultura della paura e pretendono anche di esserne i mietitori.

Il vero Expo della Italia non è solo e non è tanto quello inaugurato il primo maggio a Milano, ma l'esposizione, in ogni angolo del Paese, di quella cultura della Costituzione che educa al rispetto di tutti e di ciascuno, che rifiuta la logica dello scarto, che sa fare la pace. Questo è il vero patrimonio che mettiamo a disposizione dell’Europa e del Mediterraneo e che il mondo ci riconosce e forse un po’ ci invidia.

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