Se l’Europa si interessa della riforma della prescrizione
I giornali italiani hanno dato un certo rilievo a un documento pubblicato dalla Commissione europea il 26 gennaio, nel quale l’istituzione europea loda la riforma della prescrizione di Bonafede, entrata in vigore il 1° gennaio.
Perché, ci si potrebbe chiedere, l’Unione europea (Ue) si occupa della prescrizione in Italia?
La ragione è che agli organismi europei non è sfuggito il fatto che questo istituto, previsto in quasi tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati membri dell’Unione (anche, pur se in forme più limitate, in quelli di Common law) tranne che per delitti gravissimi come i crimini contro l’umanità, prende delle forme del tutto peculiari in Italia, che finiscono per nuocere al buon funzionamento dell’Ue. Nel nostro Paese, infatti, la prescrizione non riempie tanto la sua funzione, che è quella di impedire che un crimine venga perseguito moltissimo tempo dopo essere stato commesso: che senso avrebbe intentare un processo penale 50 anni dopo che i fatti delittuosi siano stati commessi, quando nessuno più se ne ricorda e diventa estremamente difficile, se non impossibile, raccogliere le prove? In Italia, di fatto, l’istituto della prescrizione è invece diventato un mezzo per eludere una pronuncia di condanna, anche se il processo è cominciato in un tempo ragionevolmente breve dopo la commissione del reato.
E allora, cosa c’entra tutto questo con l’Unione europea?
Nell’ambito del “Semestre europeo”, che è il processo, piuttosto lungo e laborioso, attraverso il quale i Paesi dell’Ue coordinano le loro politiche economiche, fiscali e sociali, in modo da garantire, a se stessi e ai partner, finanze pubbliche sane (contribuendo così alla fiducia reciproca), la Commissione effettua ogni anno un’analisi dettagliata della situazione di ciascun Paese. Per l’Italia si tratta, appunto, della relazione del 26 gennaio, di cui abbiamo parlato in apertura. Nelle 106 pagine del documento, la Commissione si occupa a più riprese di prescrizione, per la ragione che la riforma Bonafede («Nel gennaio 2020 è entrata in vigore una riforma positiva che interrompe il decorso della prescrizione dopo una sentenza di primo grado»), dando seguito a una raccomandazione espressa da lunga data dalla stessa Commissione, rappresenta un passo in avanti nella lotta contro la corruzione. Un passo insufficiente, che secondo l’esecutivo Ue dovrà essere seguito, tra gli altri, dalla necessaria riforma del processo penale, in modo da ridurne i tempi (dacché «la scarsa efficienza della giustizia penale continua ad ostacolare la lotta alla corruzione»), ma un passo positivo.
Secondo Transparency International, i Paesi più corrotti dell’Ue (in termini di livelli percepiti di corruzione del settore pubblico secondo esperti e imprenditori) sono, in ordine crescente: Cipro, Repubblica Ceca, Lituania, Lettonia, Spagna, Malta, Italia, Slovacchia, Croazia, Romania, Ungheria, Grecia e Bulgaria. L’Italia è l’unico dei Paesi fondatori dell’Ue che figura in questa speciale classifica. Il problema della corruzione è che non solo costituisce una palla piede allo sviluppo economico del Paese che la subisce, ma frena gli scambi tra Stati membri dell’Ue, aumentando l’incertezza e riducendo l’attrattività degli investimenti esteri in quel dato Paese, ostacolando così il mercato interno dell’Ue, ed è qui che la situazione preoccupa la Commissione. L’efficacia della lotta alla corruzione, in particolare da parte di un Paese come l’Italia che è tra quelli più colpiti da questa piaga, è essenziale per l’Unione europea. Non solo per avere finanze pubbliche sane e per il buon funzionamento del mercato interno, ma anche per altri aspetti, mono visibili ma altrettanto importanti, tra cui il bilancio a lungo termine dell’Ue.
Abbiamo assistito al fallimento del primo round di negoziati sul quadro finanziario pluriennale 2021-2027 dell’Ue, durante la riunione del Consiglio europeo del 20 e 21 febbraio. La corruzione è stata un invitato invisibile nelle discussioni tra i capi di Stato e di governo dei 27. I negoziati non hanno avuto successo soprattutto perché 4 Stati “frugali” (Austria, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia) si sono impuntati al fine di decurtare gli stanziamenti, in modo da ridurre il proprio contributo al bilancio comune. Una delle battaglie dei “frugali” è la riduzione dei fondi della politica di coesione, di cui beneficiano molti tra i Paesi che figurano nella lista dei più corrotti. Se tali Paesi, tra cui l’Italia, riuscissero nell’intento di combattere efficacemente la corruzione, e convincessero i partner che i contributi al bilancio comune alimentano le politiche dell’Ue e non il sottobosco di inconfessabili affari, forse sarebbe più facile progredire verso un accordo equilibrato che permetta di dotare l’Ue di un bilancio all’altezza delle sfide comuni.