L’Europa ritrovata

Gennaio 2003, siamo ormai entrati nel terzo anno del nuovo millennio. Se pensiamo agli auspici di un’era solare di pace e di progresso, promessa e in qualche modo avviata con il crollo del muro di Berlino e la fine della spartizione bipolare del pianeta, c’è di che rattristarsi, al vedere le nuove barriere che si vanno innalzando tanto alacremente. Ciò che sottende ai conflitti, ciò che li genera, non è stato rimosso. Le grandi piaghe sociali non sono state curate. Come sempre nella storia, c’è ancora chi può pensare che la guerra sia una scorciatoia per risolvere i problemi più gravi. Errore fatale! Ma c’è anche chi costruisce prospettive di pace. Fra queste un fatto positivo e concreto ha segnato l’anno appena concluso. L’Europa ha compiuto un grande passo firmando a Copenaghen quasi una stipula prematrimoniale con quella parte di sé perduta a Yalta sessant’anni fa e ritrovata da poco, che verrà entro quest’anno ad agganciarsi all’Unione. Si tratta, come si sa, dei paesi più immediatamente a ridosso dei suoi confini all’est (i tre Baltici, la Polonia, la Cechia, la Slovacchia, l’Ungheria e la Slovenia); e delle due isole mediterranee di Malta e Cipro. Finalmente avrà un senso pieno parlare di Europa quando ci si riferisce all’Unione europea, perché è ormai chiaro che sarà soltanto una questione di tempo, ma che l’aggancio sarà possibile anche per gli altri paesi del continente che vorranno farne parte. Perché in Europa c’è e ci sarà spazio per quanti avranno aderito a quei princìpi di democrazia e di libertà su cui si è fondata l’Unione. Si pensi alla lunga anticamera fatta in passato dai paesi iberici – e chi più europeo di loro? – rimasti esclusi fino a che non si furono liberati dei regimi dittatoriali che li governavano. Si pensi ai problemi che ancora deve risolvere la Turchia per coronare il proprio sogno europeo. Ed è una scelta costosa, quella appena fatta, che somiglia al gravoso e allora controverso passo compiuto dalla Germania per reinglobare le province dell’est. Passo doveroso, però, e lungimirante, che forse ha solo anticipato e reso più facile quello odierno, con cui si riconoscono finalmente i diritti di paesi traditi e abbandonati per oltre mezzo secolo – si pensi soltanto alla Polonia e alla Cecoslovacchia -, sacrificati sull’altare della spartizione bipolare del mondo. Qualcosa che assomigliava ai tributi primordiali di schiavi che i vinti concedevano ai vincitori per garantirsi la sopravvivenza. Ma la storia va avanti e, in qualche modo, ha già superato anche questi brutti ricordi per concentrarsi sui progetti concreti dei collegamenti con l’est, come la costruzione delle principali infrastrutture viarie largamente mancanti; come l’omogeneizzazione delle strutture legislative e burocratiche che formano l’impalcatura dei diversi stati. Abbiamo visto dunque un’Europa che si apre e che non si fermerà a questo traguardo: verso la stessa Russia, infatti, non esistono pregiudiziali. Ma in realtà il passo più difficile da compiere sarà lungo i confini meridionali, proprio là da dove l’Europa è partita: non per niente il fiume Euro divide, ma bagna egualmente la Grecia e la Turchia. E il pensiero ellenico non è forse nato su entrambe le sponde dell’Egeo? È il Mediterraneo il grembo materno dell’Europa. E si capisce come Grecia, Italia e Spagna, che in questo mare sono immerse, e, per altro verso la Gran Bretagna, nazione da sempre proiettata sui mari, vogliano garantire e affrettare l’aggancio con la Turchia. Il problema è spinoso, perché sostanziali distanze contrastano la vicinanza fisica del grande paese islamico. Quella religiosa, appunto, che nella fattispecie ha una profondissima valenza culturale, accentuata dal fatto che ora al governo è andato il partito islamico. Per non parlare dei diritti umani, visto che ancora ieri il parlamento di Ankara ha bocciato l’abolizione della tortura. Ciò per spiegare, almeno in parte, lo slittamento dell’inizio delle trattative al 2004. Un fidanzamento più lungo, dunque, ma che dovrebbe soltanto assicurare un matrimonio più sicuro. L’argomento resta comunque di bruciante attualità, sia perché la dilazione concordata è minima, sia perché segnala in quale direzione e come l’Europa si muoverà fuori dei propri confini naturali, non solo fisici, ma culturali, in vista delle nuove emergenze imposte dalla globalizzazione, che non sono soltanto quelle economiche. In questa prospettiva si percepisce ancora di più l’urgenza di avere bene davanti una coscienza che è e si rivelerà sempre di più fondante per l’Europa: quella delle proprie radici. E ciò non per guardare indietro, o per distinguersi da chi abbia radici diverse, ma per garantire la solidità e la coerenza di quello che sarà fatalmente un pilone non secondario del grande ponte, ormai in costruzione, destinato a collegare i maggiori sistemi di paesi dell’unica e pur così diversificata famiglia umana.

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