L’Europa, le migrazioni e il confine orientale

Due giorni di eventi sul confine tra Italia e Slovenia nel comune di San Dorligo della Valle/Dolina, vicino Trieste, a partire dalla memoria di 4 giovani migranti provenienti da due Paesi africani, morti di stenti alla fine del loro viaggio della speranza nel 1973. La ricorrenza del 3 ottobre, dedicata con legge nazionale alle vittime delle migrazioni, come occasione per comprendere le sfide aperte all’Italia e all’Europa nello scenario geopolitico attuale
Memoria vittime delle migrazioni Trieste 2 ottobre 2022 Foto di Anna Maria Mozzi

All’alba del 3 ottobre 2013, a poche decine di metri dalle coste dell’isola di Lampedusa, un barcone di migranti s’inabissava. Pochi furono salvati rispetto ai 366 morti, molti dei quali donne e bambini.

Quel giorno il mondo s’indignò, l’Europa pianse, l’Italia si svegliò creando l’operazione “Mare nostrum”, presto interrotta per lasciare il campo a programmi di salvataggio realizzati dagli stati europei, programmi sempre più deboli fino a sparire del tutto, trasformando il Mediterraneo in un cimitero e criminalizzando le organizzazioni non governative.

In ricordo di quella tragedia e di tutte le vittime dell’immigrazione ogni anno si celebra in tutta Italia, il 3 ottobre, la “Giornata Nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”, voluta dal Parlamento con una apposita legge (21.03.2016) al fine “di conservare e di rinnovare la memoria di quanti hanno perso la vita nel  tentativo  di  emigrare verso il nostro Paese per sfuggire alle guerre, alle  persecuzioni  e alla miseria” (art. 1 co.1).

Nonostante si tratti di una ricorrenza istituzionale, dell’esistenza di questa giornata nazionale si sa poco o nulla e certo non «sono organizzate in  tutto il territorio nazionale cerimonie, iniziative e incontri al  fine  di sensibilizzare  l’opinione  pubblica  alla  solidarietà civile  nei confronti dei migranti, al rispetto della dignità umana e del valore della vita di ciascun individuo, all’integrazione e all’accoglienza»  (art. 2 co,2), come dispone una norma di fatto rimossa dalla coscienza collettiva.

Intanto la situazione non è affatto migliorata dal lontano 2013; tuttora l’Italia e l’Europa continuano infatti a finanziare sia la cosiddetta guardia costiera libica affinché blocchi le persone in fuga e le riporti indietro, sia i centri di detenzione in Libia, luoghi, come ha evidenziato anche papa Francesco, “di confinamento e di tortura” (Nicosia, 3.12.21).

La situazione non è meno tragica, e si è notevolmente aggravata negli ultimi anni, lungo le vie di fuga terrestri, in particolare lungo la rotta balcanica, teatro, dalla Turchia fino a Trieste, di indicibili sofferenze, violenze e respingimenti illegali a carico delle persone in fuga.

Molti fatti, dal muro che la Polonia sta costruendo con la Bielorussia ai naufragi per mancanza di soccorsi nel Mediterraneo, dalle violenze della rotta balcanica ai tentativi di bloccare con ogni mezzo i rifugiati lontano dall’Europa, indicano che l’Europa sta smarrendo la propria identità ed è forse in gioco la sua stessa sopravvivenza come progetto politico di costruzione di uno spazio di libertà e giustizia.

La scelta, del Comitato nazionale per le celebrazioni del 3 ottobre promosso da Pax Christi, di individuare nel Friuli Venezia Giulia e in Trieste il luogo nel quale, oltre a Lampedusa, organizzare l’evento centrale del 2022, assume pertanto un valore particolare in quanto richiama l’attenzione alle rotte via terra, di cui in Italia si parla poco ma che rappresentano, sul piano europeo, una via d’ingresso non meno importante rispetto alle vie di fuga marittime.

Nei giorni di sabato 1 e domenica 2 ottobre nella zona della Val Rosandra, comune di S.Dorligo della Valle/Dolina, area sud est della provincia di Trieste addossata al confine sloveno, sono stati organizzati dunque degli eventi di grande significato simbolico.

Il primo è stato la commemorazione, presso il cimitero di S. Antonio in Bosco, della morte, avvenuta nel lontanissimo ottobre 1973 (il prossimo anno ricorre il cinquantenario) di 4 cittadini africani provenienti dal Mali e dalla Mauritania, morti di freddo e di stenti proprio nel momento in cui la salvezza appariva ad un passo, nella Val Rosandra, alle porte di Trieste, al termine di quella rotta balcanica che già allora esisteva e che non si è dunque mai né aperta né chiusa. Ciò a riprova di come quelli che a molti erroneamente appaiono eventi recenti, sono invece drammatiche realtà che coinvolgono il nostro Paese da mezzo secolo.

L’evento di più alto valore simbolico si è tenuto domenica 2 ottobre con una breve marcia di un paio di chilometri che si è tenuta a ridosso del confine sloveno concludendosi poi di fronte al Teatro F. Preseren di Bagnoli della Rosandra.

Si tratta di uno dei tanti sentieri percorsi tutti i giorni dai migranti in fuga che, stremati e feriti, giungono a Trieste nell’indifferenza generale e trovano una città e un Paese ostile che, nonostante il loro numero ridotto, fatica ad accoglierli.

Si tratta di sentieri che oggi sono relativamente aperti, ma dove fino a gennaio 2021 si attuavano i respingimenti illegali dei richiedenti asilo (oltre 1.000 fino a fine 2021 secondo i dati forniti dallo stesso Ministero dell’Interno) e di cui con grande fatica in Italia si è riusciti a parlare cercando di spezzare il muro del silenzio che avvolgeva quella operazione che prese il via il 15 maggio 2020 sulla base di una precisa direttiva, mai resa nota nonostante sia stata chiesta dal Parlamento in più occasioni.

Dopo diverse interpellanze parlamentari il Governo italiano ha ammesso quanto la stessa Amministrazione aveva in passato sempre smentito, ovvero che le riammissioni informali si applicano “anche qualora sia manifestata l’intenzione di chiedere protezione internazionale” in violazione degli artt. 3 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, gli artt. 3, 4 e 14 del Regolamento (UE) n. 2016/399 e gli artt. 3, 4, 6-11 del Regolamento (UE) n. 604/2013, anche detto Dublino III.

Le riammissioni erano dette “informali” perché nessun provvedimento veniva notificato agli stranieri, restituiti in poche ore manu militari alla polizia slovena in modo da impedire loro di adire a qualsiasi autorità giudiziaria in evidente spregio dello stato di diritto. La medesima deportazione informale, attuata in modo rapidissimo, proseguiva poi dalla Slovenia alla Croazia e infine dalla Croazia alla Bosnia in un crescendo di violenze che culminava, in prossimità della frontiera esterna dell’Unione Europea, in pestaggi e torture, la depredazione dei pochi miseri averi delle vittime, la sottrazione dei loro cellulari, la denudazione delle persone anche in pieno inverno. Tutto ciò allo scopo di far sparire gli sventurati oltre il limes europeo trasformandoli in fantasmi.

Come evidenziò il Tribunale di Roma nell’ordinanza del 17 gennaio 2021 che dichiarò illegali le riammissioni «il Governo italiano era in condizioni di sapere [….] che la riammissione in Slovenia avrebbe comportato a sua volta la riammissione informale in Croazia e il respingimento in Bosnia, nonché che i migranti sarebbero stati soggetti a trattamenti inumani e alle vere e proprie torture inflitte dalla polizia croata».  Una ferita alla legalità mai richiusa in quanto il Governo italiano ha sospeso le riammissioni dopo il contenzioso giudiziario di fronte al Tribunale di Roma, ma non ha mai ammesso pubblicamente l’illiceità della propria condotta.

La marcia, avvenuta proprio lungo uno dei sentieri ad oggi più praticati dai migranti e lungo il quale avvenivano le riammissioni illegali nel 2020, rappresenta un monito per difendere i diritti fondamentali delle persone più deboli in un momento storico caratterizzato da un arretramento generale della vita democratica.

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