L’Europa chiede chiarimenti sull’operazione Banca d’Italia
Ormai è ufficiale. La Commissione Ue ha chiesto alle autorità italiane «maggiori informazioni sul decreto legge del 30 novembre 2013 che introduce cambiamenti nel capitale e negli azionisti della Banca d’Italia, per valutare se contiene aiuti di Stato ad alcune banche». L’antitrust Ue si è mossa in base alle segnalazioni arrivate dal deputato al Parlamento europeo, Niccolò Rinaldi dell’Idv, e dalle associazioni di consumatori Adusbef e Federcosumatori. Nella recente intervista ad Andrea Baranes abbiamo dato spazio alle eccezioni e critiche sull’intera vicenda. Sempre per offrire elementi per la comprensione di una vicenda che mette in gioco poteri rilevanti nel Paese, abbiamo consultato le fonti ufficiali di via Nazionale e chiesto il parere di alcuni esperti interni al mondo bancario che da anni lavorano in un laboratorio civile su finanza ed economia.
La riforma della Banca d’Italia da un lato impone un tetto massimo alle quote dei singoli partecipanti al capitale, dall’altro riduce l’ammontare massimo di utili che potranno essere distribuiti ogni anno. La riforma prevede anzitutto che i singoli partecipanti al capitale della Banca d’Italia non possono detenere più del 3 per cento del capitale, quindi chi oggi ha una quota superiore a tale percentuale dovrà vendere la maggior quota. Potranno acquistare tali quote non solo le tipologie di soggetti presenti già oggi nel capitale, ossia banche ed enti di previdenza e assistenza, ma anche fondi pensione e fondazioni. Chi acquista le quote dovrà avere la sede legale in Italia e questo per continuare a preservare l'“italianità” della nostra banca centrale».
E i dividendi? La novità della riforma consiste nel fatto che viene fissato a 450 milioni il tetto massimo per la distribuzione degli utili ai partecipanti (i cosiddetti “dividendi”): prima il limite era variabile e tendeva ad aumentare nel tempo. Il nuovo limite rimarrà fisso e già oggi è più basso di quello dell’ultimo bilancio (600 milioni nel 2012, anche se ne erano stati distribuiti solo 70).
La riforma ha richiesto di rivalutare il capitale della Banca d’Italia e di determinare il nuovo importo in 7,5 miliardi di euro, una sorta di aggiornamento del valore. I tecnici interpellati affermano che il capitale della Banca d’Italia era fermo in bilancio a 156 mila euro, corrispondenti al valore di 300 milioni di lire fissato dalla Legge bancaria del 1936. Poiché la riforma ha stabilito che chi ha più del 3 per cento del capitale deve vendere la maggior quota, è stato necessario aggiornare il valore del capitale come premessa per le vendite che dovranno aver luogo. Il valore dei 7,5 miliardi è stato stabilito dal governo sulla base di una stima effettuata dalla Banca d’Italia insieme ad un comitato di esperti a livello internazionale. Questa stima indica che il valore aggiornato del capitale si colloca tra i 5 e i 7,5 miliardi, un intervallo relativamente ampio ma, come riferito dalla Banca d’Italia, inferiore a quello delle stime riportate nei loro bilanci dalle banche titolari di queste quote. Nel documento metodologico pubblicato sul suo sito, la Banca d’Italia spiega che per arrivare a questa stima è stato calcolato il “valore attuale” (secondo i consueti principi di finanza) dei dividendi attesi per il futuro.
Spiegata in questa maniera sembra aver ragione chi ritiene la rivalutazione delle quote di BdI una operazione vantaggiosa per tutti. E Renato Brunetta (Fi) ha declinato meglio il "per tutti" spiegando che «le banche si ricapitalizzano e affrontano con meno pathos i parametri di Basilea III; le imprese e le famiglie vedranno riaprire nei loro confronti i rubinetti del credito; lo Stato trarrà vantaggio in termini di gettito». Anche per Marco Causi (Pd), non si tratta di un regalo alle banche, ma di «un’operazione che farà bene a tutto il sistema, anche alle famiglie e alle imprese che potranno accedere più facilmente al credito».
Eppure persistono i dubbi di Baranes di Banca etica e anche dell’economista Tito Boeri che parla di una «rivalutazione collusiva che lascia un’eredità pesantissima sui contribuenti futuri, perché dovranno d’ora in poi pagare per il tramite di Banca d’Italia dividendi più alti agli istituti di credito privati». Ma se si trattava di risanare in qualche modo i bilanci delle banche non si poteva usare un altro strumento?
Gli esperti interpellati affermano che «non si può parlare di operazione collusiva, né di uno strumento che serve a risanare i bilanci delle banche. Ricordiamo che la vendita delle quote da parte delle banche era già stabilita dalla “legge sul risparmio” del 2005 che aveva previsto il passaggio di queste quote allo Stato. Questa legge è rimasta inattuata e risulta ora superata dall’attuale riforma che prevede, in luogo del passaggio allo Stato, l’ampliamento dei partecipanti al capitale. Il fatto che le banche vendessero le quote realizzando la relativa liquidità era quindi già contemplato dalla legge del 2005».