L’Euro: busto ortopedico o trappola?
Firmando il trattato di Maastricht, per essere ammesso alla moneta unica lo Stato italiano ha accettato che da quel momento in poi avrebbe mantenuto la spesa pubblica nei limiti di quanto avesse raccolto dai suoi cittadini con le imposte sul reddito, sui consumi e sui patrimoni. Invero il bilancio avrebbe potuto sforare fino ad un massimo al tre per cento del Prodotto interno lordo (Pil). L'Italia si era anche impegnata ad utilizzare parte del minore costo per interessi di cui avrebbe goduto grazie all'Euro, per ridurre il debito pregresso fino al 60 per cento del Pil.
Avendo prima di allora un bilancio con deficit più alti, il governo Prodi, per rientrare nel tre per cento, aveva varato una tassa di scopo, che in parte ha restituito negli anni successivi grazie alla riduzione dei tassi del debito pregresso. Quella riduzione era il vantaggio che veniva assicurato ai Paesi del Sud dal condividere la moneta con quelli del Nord, i quali in cambio potevano vendere a casa nostra i loro prodotti nella nostra moneta che adesso era anche la loro, rendendoli spesso più attraenti dei nostri grazie al loro miglior rapporto qualità/prezzo. Quanto i Paesi del Nord abbiano goduto di questo vantaggio lo si vede dalle auto di loro produzione che affollano le nostre strade. Prima dell'Euro, nel mercato europeo vi era l'unione doganale, ma le nostre industrie erano protette dalla moneta diversa: quando soffrivano troppo per la concorrenza estera, premevano per una svalutazione della lira, che riduceva i loro costi di produzione rispetto a quelli esteri.
Con la moneta unica non si può più svalutare: per ridurre i costi di produzione adesso occorre produrre di più con la stessa forza lavoro, lavorare più ore con lo stesso stipendio, o ridurre gli stipendi dei lavoratori: tutte alternative inattuabili, perché provocherebbero scontri sociali e politici ed un Paese squassato dagli scioperi.
Malgrado queste difficoltà, la scelta di entrare nell'Euro è stata una scelta di civiltà, una via per far evolvere forzatamente il Paese in modo virtuoso, imponendogli un "busto ortopedico" che obbligasse a sveltire burocrazia e giustizia e ridurre evasione e corruzione per arrivare ad una forma di Stato che i Paesi del Nord Europa dimostravano possibile; una scelta che era stata dettata dall'ottimismo della volontà dei nostri migliori statisti, che però ha trascurato il fatto che negli anni successivi si sarebbero potuti avere governi che, come è successo, avrebbero utilizzato il minor costo del debito invece che per ridurne il volume, per spese o minori imposte utili ad ottenere consenso elettorale.
Quando la crisi della finanza statunitense è diventata internazionale, il livello del debito italiano, da anni non compensato da un aumento del Pil, ha convinto la finanza internazionale che il rimborso dei nostri titoli conteneva un rischio che andava retribuito con il famoso spread; si è così tornati a pagare il costo del debito caro come prima dell'Euro, un maggior costo che si ripercuote sul finanziamento delle imprese ancor più sfavorite rispetto a quelle del Nord perché queste possono disporre di denaro a tasso prossimo allo zero e sul tasso dei mutui delle nostre famiglie giovani: questa volta senza aver modo di ridurre il valore dei debiti e guadagnare competitività con una svalutazione. Ci si è messi in trappola?
Si è giunti quindi in una situazione squilibrata: oggi il Nord è in grande vantaggio rispetto a chi al Sud sta cercando di allinearsi alla sua efficienza, vantaggio che sparirebbe immediatamente se il Sud lasciasse l'Euro.
Il presidente Monti, forse unico, si muove da vero leader europeo, che pur pensando all'Italia, mette al primo posto le sorti dell'Europa, ricordando come forse pochi che questa è il miracolo politico dell'ultimo secolo, un fiore nato su 40 milioni di morti della Seconda guerra mondiale: lo fa chiedendo che si incoraggino e si sostengano quei Paesi che operano per rispettare gli impegni presi entrando nell'Euro.
I governanti del Nord vogliono però garanzie, perché ricordano il comportamento spendaccione negli ultimi dieci anni dei governi del Sud, e fanno notare l'esempio recente del rinvio delle riforme del governo Berlusconi appena la Bce, per evitare un’ulteriore crescita dello spread italiano, aveva acquistato nostri titoli sul mercato secondario. Loro ricordano che se in Europa si continuasse a fare debiti, si potrebbe innescare una iperinflazione simile a quella che nel 1933 aveva bruciato i risparmi dei tedeschi ed aveva fatto emergere il nazismo.
Monti chiede che la Banca europea operi perché lo spread dei titoli dei Paesi virtuosi rimanga simile a quello degli altri Paesi del Nord, degli Usa, dell'Inghilterra e del Giappone, Paesi questi ultimi che, pur avendo situazioni debitorie simili a quelle del Sud Europa, non ne soffrono, perché le loro banche centrali possono acquistare titoli di Stato per contenerne i tassi: la Bce per ora non lo può fare, se non in casi di emergenza.
Potrebbe il governo italiano fare per conto suo qualcosa per far crescere l'economia e il lavoro senza aumentare le imposte, più di quanto propone il governo Monti? Invece di rinnovare i propri titoli di Stato in scadenza a tassi sempre più alti, per sei mesi potrebbe finanziarsi vendendo in blocco a prezzo equo ad un fondo immobiliare, sottoscritto dalle classi più abbienti, una parte dei beni pubblici non indispensabili: queste classi così, senza essere soggette a tasse patrimoniali, aiuterebbero lo Stato a proteggere il valore dei loro stessi beni, questa volta non già a scapito del resto degli italiani, ma anzi a favore di tutti.