Una lettura approfondita del Ddl Zan: l’articolo 1
Il disegno di legge (Ddl) Zan, ha per titolo Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità. Analizziamo l’art.1 ( Definizioni) che prevede quanto segue: Ai fini della presente legge: a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico; b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; d) per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione.
Anzitutto occorre precisare che le suddette “definizioni” riguardano non soltanto la corporeità e la sessualità umana ma, soprattutto, lo stato soggettivo psicologico ed interno di una persona che, proprio per sua natura, è difficilmente percepibile da parte dei terzi e (pertanto) non così oggettivabile.
Già solo questo aspetto strettamente correlato alle “definizioni” si pone in un’area di criticità rispetto all’art.25, comma 2, della Costituzione (principio di legalità) secondo il quale “la norma penale è legittima solo quando il suo oggetto sia stabilito da una legge precisa e determinata”: in effetti, nella fattispecie penale, tutti gli elementi costitutivi necessitano di essere precisamente individuati e, contestualmente, occorre che vi sia corrispondenza tra il fatto tipico (previsto nella norma penale) e un’esperienza di vita (concretamente verificabile). Come dice il giurista Natalino Irti il diritto, mediante la fattispecie, pensa l’avvenire: “il fatto, ricondotto allo schema, è appunto un esempio, un caso. Non c’è caso senza un criterio o modello, che lo ri-conosca come applicazione di sé: ri-conoscere, al modo in cui si discoprono e ritrovano i tratti di un volto (…). Al diritto non basta il giudizio storiografico, ove qualcosa è accertato come accaduto, ma occorre un giudizio addizionale, che, risolvendo il fatto in caso, assegni un predicato giuridico e ne tragga le correlative conseguenze” ( N. Irti, 2016, Un diritto incalcolabile, Giappichelli, Torino).
L’art.1 del Ddl Zan, cerca di imbrigliare in quattro definizioni (il sesso, il genere, l’orientamento sessuale e l’identità di genere) tutto ciò che concerne l’uomo e la sua identità personale, così rischiando di tralasciare altre definizioni (alias, categorie) che potrebbero essere rilevanti in riferimento alle tutele che questa legge vorrebbe realizzare.
La non coincidenza tra sesso biologico e sesso anagrafico, peraltro, non dipenderebbe sempre (e soltanto) dalla mera volontà della persona adulta; come bene osserva il consigliere di Cassazione Alfredo Mantovano (in Legge omofobia perché non va, Cantagalli, 2021, p.47) questa non corrispondenza tra la sfera biologica e quella biografica (in riferimento al sesso) potrebbe anche dipendere “da un eventuale errore di attribuzione alla nascita o da eventuali diagnosi dei cosiddetti disturbi della differenziazione sessuale, cioè quelle anomalie a livello cromosomico che alterano il processo di differenziazione giungendo a rarissimi casi di intersessualità, come, per esempio, per la Sindrome di Turner o per la Sindrome di Klinefelter“. Peraltro, secondo Russel (in Genetica. Un approccio molecolare, Pearson Education, Milano, 2010, pp 306-307), i dati epidemiologici rivelano la bassissima incidenza di queste due patologie, con un rapporto di 1 su 10.000 nel caso di Sindrome di Turner e con un rapporto di 1 su 1.000 nel caso di Sindrome di Klinefelter.
Quanto alla definizione di “genere” di cui alla lettera b) dell’art.1, forti perplessità ruotano attorno alle espressioni “qualsiasi manifestazione esteriore” e “aspettative sociali connesse al sesso”; chi (e soprattutto in che modo) sarà chiamato a verificare che quelle espresse siano davvero le reali manifestazioni esteriori che connotano un determinato “genere” piuttosto che un altro ? Sotto questo profilo, mi permetto di richiamare qui l’analisi di Alfredo Mantovano (sopra richiamato, vedi pag.49) secondo il quale “è probabile che il legislatore confonda l’identità di genere con il ruolo di genere”.
Alla lettera c) dell’art.1 del Ddl Zan, a proposito di orientamento sessuale, il legislatore proponente si riferisce sia all’attrazione sessuale che a quella affettiva, peraltro senza distinguere l’età dei soggetti di questa attrazione e di questo affetto; e se questo sentimento avesse come destinatario un minore d’età ?
In ultimo, in ordine all’identità di genere di cui alla lettera d) dell’art.1, ulteriori perplessità sorgono per quanto concerne la precisazione “indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”; come dire, la sessualità è qualcosa di spezzettato, di frammentario (e quindi di difficile oggettiva percezione), in primis per i soggetti che questo Ddl Zan vorrebbe tutelare, figuriamoci per i soggetti “terzi” che potrebbero essere imputati del reato di discriminazione o di violenza relativamente alle categorie di cui all’art.1 qui in esame.
Per chiudere: il diritto penale non può creare (tentando di definirlo, di delimitarlo) qualcosa che è già stato creato (o comunque sussistente) per natura, cioè l’uomo con tutte le sue molteplici sfaccettature (corporee ed esteriori ma, soprattutto, quelle introspettive e psicologiche). Il fatto tipico che la norma penale vuole punire, deve essere chiaro e ben definito in ogni suo elemento costitutivo, così da poter esser messo in correlazione e a confronto con l’esperienza di vita reale, concretamente verificabile dall’essere umano e, in particolare, dal giudice che sarà chiamato ad applicare la norma e ad attuare le tutele da questa prevista.
La struttura del diritto si esprime attraverso il linguaggio degli uomini, ma non sempre questi ultimi riescono (attraverso il linguaggio, appunto) a definire – e quindi a contenere – essi stessi e la propria vita: come dire, il diritto penale del Ddl Zan utilizza un linguaggio che (forse), non rappresenta propriamente la casa dell’essere umano. Tanto è vero che in quella griglia di definizioni di cui all’art.1,il legislatore non ha ritenuto di dedicare spazio al termine “disabilità”. Per quale motivo ?
(Per approfondire l’argomento guarda il focus sul Ddl Zan)