Letteratura e vincolo morale
«Senza un vincolo morale la letteratura si riduce a niente». Questo titolo dice il suo contrario: non vuole avere niente di obbligante e di moralistico.
Sono poche parole dette, anzi scolpite anni fa da un grande critico, Cesare Segre: la letteratura si riduce a niente senza un legame profondo (vincolo) e non qualsiasi, ma morale. Con chi? Come? Perché?
I Romani antichi lo sapevano bene, infatti Seneca, ad esempio, ha scritto centinaia di pagine, come Cicerone, e in particolare quelle finissime a Lucilio, sui mores, cioè sull’essere-comportarsi. Senza mores non c’è vera humanitas, autenticità umana, sostanza e non finzione.
E qui si verifica una sorprendente convergenza inconsapevole: negli stessi anni delle Lettere a Lucilio l’apostolo Paolo inviava una brevissima lettera al cristiano Filemone per indurlo a riaccogliere lo schiavo Onesimo fuggito; a riaccoglierlo come fratello, mentre il pagano Seneca insegnava a trattare gli schiavi come humiles amici, amici di bassa condizione sociale (non dice fratres, sarebbe pretendere troppo, precisamente ciò che insegnano i Vangeli).
Se vogliamo il contraccolpo di questo discorso, basta rivolgersi alla letteratura moderna così spesso priva di vincoli morali. È inutile fare esempi, vorrei portarne solo uno eclatante. Italo Svevo è certamente, nel suo nichilismo ironico, un campione di assenza di vincoli morali. Infatti in tutte le antologie troviamo le pagine sull’“ultima sigaretta”, ridenti e leggere, prive di “vincoli”. Eppure anche lui ha trovato il suo momento molto serio, il suo vincolo morale, quando, sul letto di morte a causa di un incidente stradale, ha chiesto alla figlia piangente di non piangere, perché la morte “non è niente”: coniugando in tal modo, genialmente, il suo nichilismo con un gesto di serio, vincolante moralissimo atto d’amore.
Ecco il vincolo, senza nessuna prigione, ed ecco il suo volto morale senza nessun moralismo. Così la migliore letteratura del ’900 riscatta sé stessa e i suoi lettori.
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