Letteratura (e non solo) in pericolo
Lo strutturalismo svuota la letteratura e svaluta fedi e sentimenti. Poveri ragazzi, che a scuola devono sorbirselo.
Poiché siamo il Paese che ci arriva sempre dieci o vent’anni dopo, i nostri ragazzi alle superiori sono infelicitati dai metodi di analisi dello strutturalismo, che ovunque mostra la corda, ma da noi trionfa soprattutto nella critica letteraria, contribuendo alla crisi generale della cultura.
E fosse almeno il “grande” strutturalismo, quello linguistico-antropologico da De Saussure a Jakobson a Lévi-Strauss! No, è quello degli epigoni scolastici, che ti danno la formula di struttura di tutto (ammesso e non concesso, diceva Totò), ti informano minuziosamente sulle macrosequenze, gli attanti e il narratario, e via divertendosi, dei Promessi Sposi o della Coscienza di Zeno, ma si guardano bene dal dirti, o tentare di dirti, perché mai Manzoni e Svevo li abbiano scritti, cosa ci stiano a fare Renzo e Lucia o Zeno Cosini e cosa queste opere abbiano a che fare con la vita e con la storia; cioè con la verità, che è parola-tabù per lo strutturalismo. Pilato era uno strutturalista («Che cos’è la verità?»).
Il guaio è che lo strutturalismo non è che una forma bene o male organizzata di nichilismo, ti dice (se va bene) come funziona ma non cosa, assomiglia al vecchietto della barzelletta che confida al suo medico di correre dietro alle ragazze, e a lui che ride dicendo che gli pare un segno di vitalità, replica: «Sì, ma il problema è che non so perché».
Lo strutturalismo funzionerebbe, nel suo piccolo, se ci restasse; invece vuole dilatarsi a tutta la conoscenza diventando ideologicamente una dogmatica, fuori luogo e fuori metodo, dell’universo e dintorni; e non si limita a riempire la testa di mirabolanti astrazioni a ragazzini che già faticano con l’ortografia e la grammatica, ma ti detta (ragazzino o adulto che tu sia) qual è la vera struttura delle cose (aggiungendo con fastidio che valori, fedi, sentimenti sono sciocchezze o manie private); come se un innamorato dovesse mettersi nel portafoglio non la fotografia della fidanzata ma la sua radiografia. Finché qualcuno sbotta, come nella novella di Andersen: Il re è nudo!
Lo fa Tzvetan Todorov, intellettuale bulgaro-francese di fama europea, che finalmente si pente e comincia a svegliarsi, a sufficienza per darci nella prima parte di un agile libretto (La letteratura in pericolo, Garzanti) una diagnosi, ad altezza d’uomo e non di ideologia, del disastro della letteratura sottoposta a svuotamento ed essiccamento, come i merluzzi della Norvegia, dallo strutturalismo. Sulla seconda parte, che è una storia delle teorie estetico-letterarie, sono molto più critico: la conoscenza della fondamentale cultura classico-cristiana è parziale, carente, lacunosa e spesso distorta. Ma la prima parte è preziosa.
Partendo finalmente da qualcosa di umano – «Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri (…); la letteratura apre all’infinito questa possibilità di interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente» – Todorov tocca con sicurezza, come il buon fiorettista, il punto dolente, scoperto anche se malamente nascosto, della questione: «Studiarne in primo luogo i metodi di analisi (…) oppure studiarne opere ritenute fondamentali, utilizzando i metodi più diversi? Dove sta lo scopo e dove il mezzo? (…) Dimostriamo una certa mancanza d’umiltà quando insegniamo le nostre teorie riguardo alle opere, piuttosto che le opere stesse (…). In nessun caso lo studio di questi mezzi deve sostituirsi a quello del significato, che è il fine (…). La conoscenza della letteratura non è fine a sé stessa, ma rappresenta una delle vie maestre che conducono alla realizzazione di ciascuno».
Il ’68, in Francia particolarmente, rivoluzionò l’università, i suoi moduli e metodi e studi, fino a che «lo studio del significato (…) era visto con sospetto».
In tal modo in Francia, e poi da noi, si cominciò a studiare il “funzionamento interno” di ogni conoscenza «escludendo ogni rapporto con il “mondo empirico” o con la “realtà” (parole che si utilizzano ormai solo tra virgolette)». E mentre lo strutturalista classico, fino agli anni Cinquanta per intenderci, «scartava a priori il problema della verità dei testi, il post-strutturalista vuole affrontarlo; ma il suo commento invariabile è che non troverà mai risposta. Il testo può trasmettere una sola verità, cioè che la verità non esiste o che resterà sempre inaccessibile».
Salvo rarissime eccezioni tutto l’intellettualismo francese ragiona così, e il nostro a rimorchio; e, commenta con amarezza micidiale Todorov, «se gli scrittori aspirano a ricevere gli elogi della critica, devono conformarsi a un’immagine come questa (la letteratura, cioè, che parla solo di sé stessa), per quanto scialba; del resto, anch’essi il più delle volte hanno cominciato come critici».
Insomma è avvenuta, con tutti i suoi esiti velenosi, dice ancora Todorov, una rottura radicale tra l’io e il mondo. E non lo vediamo a tutti i livelli? In molti giovani, soprattutto? È come se una grande bomba distruttrice avesse disarticolato e disordinato la grammatica e la sintassi non solo delle conoscenze, ma, correlatamente, dei sentimenti: quell’ordine dell’amore (ordo amoris) di cui parlava appassionatamente sant’Agostino.
Perciò vorrei consigliare il lettore con interessi filosofici – abbiamo un bisogno immenso di filosofia, non di sistemi astrusi ma di semplice, elementare e fondamentale conoscenza razionale e intellettuale delle cose – un libretto scritto dal grande filosofo cattolico Max Scheler durante la prima guerra mondiale e intitolato non per caso Ordo amoris, ora tradotto da Morcelliana, in cui con una rigorosa analisi di tipo fenomenologico il pensatore cerca di tracciare l’ordine “oggettivo” dei grandi valori etico-sentimentali (l’“ordine del cuore” di Pascal), per comprendere, non solo razionalisticamente ma nel ritmo stesso della vita, il mondo: «Dal granello di sabbia fino ad arrivare a Dio».
È un libretto prezioso e coraggioso che non s’impaccia in rispetti umani (ovvero viltà morali e intellettuali) quando dice che «chi ha l’ordo amoris di un uomo ha l’uomo stesso», e che «il vertice massimo raggiungibile dall’uomo sarebbe amare le cose al più possibile nel modo in cui le ama Dio, e nel proprio atto d’amore esperire l’armonico incontrarsi dell’atto divino e dell’atto umano in un unico e medesimo punto del mondo dei valori».
In un tempo di analfabetismo culturale e morale, di informe volgarità massmediale e di disorientamento scolastico, queste luci antiche e odierne non sono effimere.