L’eternità dolcissima di Renato Cane

Al Brancaccino di Roma, un testo grottesco e ironico, ma densamente umano sulla morte di un uomo qualunque, un venditore farmaceutico. Alla sua seconda regia teatrale Vinicio Marchioni dirige Marco Vergani
Un momento dello spettacolo

È un piccolo gioiello di drammaturgia. Un testo, oserei dire, “necessario”, termine troppo usato e abusato, ma, in questo caso, credo pertinente per il tema scomodo trattato e per la ficcante scrittura scenica che ben si presta, come monologo, a una bella prova d’attore. E si è calato con umile approccio, con passione recitativa, con affondo umanissimo, con dosato e intenso dispiego di toni e di gesti, di posture sbilenche e andature ritmate, Marco Vergani nel dare voce e corpo e anima a L’eternità dolcissima di Renato Cane, prezioso scritto di Valentina Diana che l’accurata, minuziosa regia, e quella mano di leggerezza, di Vinicio Marchioni ha saputo tradurre e dirigere sul palcoscenico.

 

Si parla, ma senza la pesantezza dell’argomento ostico, di malattia e di morte. E, necessariamente, di vita. La morte guardata senza soggezione, per poterla, paradossalmente, vivere. Nella società come la nostra del consumismo irrefrenabile, della bellezza patinata, del giovanilismo a tutti i costi, parlarne è tabù. L'autrice ci prova, affrontandola dal punto di vista anche della speculazione che di essa si fa. Perché a muovere le nostre esistenze sono l’azione e il denaro, il fare per guadagnare. Così ci fanno credere. E allora, «Come trarre il maggior profitto possibile da questo della morte che normalmente è un ambito delicato e addirittura sacro, del quale non si parla volentieri?», si domanda l’autrice. Da qui l’innesto, per contrasto, tra l’evento tragico e anche mistico, della morte, con l’ingegnarsi per trarre guadagno da tutto. Senza scrupoli.

 

La storia, grottesca, è quella di un uomo qualunque, dalla vita anonima, come ce ne sono tanti – che, con quel nome, Cane, fa intuire qualità di vita e stato d’animo. Il protagonista rimanda a quel commesso viaggiatore del celebre dramma di Arthur Miller. È  un giovane venditore per una casa farmaceutica, un cosiddetto informatore scientifico. Sempre in viaggio, si sposta su treni di pendolari e dorme in piccoli alberghi. Dentro una scena minimale definita da una fila in prospettiva di piccole sbarre di luci colorate con solo un manichino di donna e una playstation sospesi, ascoltiamo solo il ticchettio delle lancette di un orologio e a sprazzi improvvisi poche note della canzone What a wonderful world che interrompe bruscamente il fluire del racconto.

 

Nel presentarsi con la sua valigetta da lavoro accanto ad una sedia, il protagonista ci dice subito che gli è stato diagnosticato un tumore. Ce lo comunica sorridendo. Ma poi il mare dei sentimenti si agita e irrompono. E ci racconta, da lì in poi, il precipitare degli eventi nella sua vita, la paura e solitudine che lo attende. Si licenza dal lavoro e cerca sostegno e conforto, che non trova, in sua moglie, distratta e superficiale, e in suo figlio, questi intento a finire la sua battaglia sulla playstation. La visione di un cartello pubblicitario su un tram lo conduce presso “Le trombe del Signore”, un’impresa di pompe funebre il cui proprietario è un nano viscido, che assicura a quel “morto potenziale” l’organizzazione impeccabile del funerale già da vivo, in modo da potersi tranquillamente preparare alla morte, vincendo la paura di essa e persino renderla desiderabile, perché – gli dice – «Finché sei vivo sei in pericolo». Vendendogli l’illusione di un mondo possibile, l’assurda agenzia, che offre altri servizi come piscine e campi da tennis, assicura anche l’eternità. Con una semplice carta di credito.

 

Il finale, con l’evolversi degli eventi, non ve lo sveliamo. Ma avrà la sorpresa di rivelarci il candore di un uomo che troverà consolazione e stupore nelle pitture a forma di farfalle schiacciate su un foglio che una bimba gli vende e che si troverà anche lui a disegnare. Nel frattempo, di sicuro, quell’uomo senza qualità per il quale proviamo compassione e simpatia, se non empatia, ci avrà condotto, con ironia e leggerezza, col sorriso sulle labbra fino all’ultimo e strappandoci le risa, a riflettere su quanto il consumismo, la pubblicità, i soldi, ci mangino l’esistenza; e, senza retorica, su quanto, nonostante tutto, sia bella la vita se sappiamo godere di quello, poco o tanto, che abbiamo. Guardando anzitutto agli affetti.

 

“L'eternità dolcissima di Renato Cane” di Valentina Diana, con Marco Vergani, regia di Vinicio Marchioni, disegno luci di Andrea Burgaretta, supervisione artistica di Milena Mancini. Produzione Khora.teatro. A Roma, Teatro Brancaccino.

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