L’espressione dei “moti piu’ profondi”

Una chiatta sul giallo della Senna, un liquido più dorato del tramonto che lo sovrasta. Gli azzurri sulle carni ambrate di un corpo. Un paesaggio, intuito più che visto, nella trama di un tappeto cromatico intessuto da pennellate robuste, quasi a gara con l’energia conservata nel colore spremuto direttamente dal tubetto. È questo il comitato d’accoglienza che ci sorprende, saliti gli ultimi gradini alla mostra del Vittoriano. Pechstein, Mueller, Heckel, Rottluff, tutti nell’abbraccio del ridotto campo visivo di ingresso mostra. L’impatto spiazzante delle loro soluzioni costringe a soffermarsi e a ritardare l’incontro con il titolo della rassegna che campeggia a metà corridoio: Gli espressionisti 1905-1920; generico quanto spericolato assenti i Fauves, l’esposizio- ne si concentra sul fronte germanico). “Il mondo c’è già, non avrebbe senso farne una replica. Il compito principale dell’artista consiste nell’indagare i moti più profondi e il significato fondamentale, e nel ricrearlo”. Le parole utilizzate dagli artisti de Die Brücke (Il Ponte, il movimento artistico nato a Dresda nel 1905), per invitare Nolde ad unirsi a loro, guidano la lettura di questi testi nei quali si esprime l’interno, il “profondo”. Ma la sostanza di questa indagine si esprime solo nel momento in cui si “spreme” sulla materia, sulla carne del mondo: in quel momento essa “ricrea”. Corpi e paesaggi sono trattati in modi asciutti e piatti. Un’inaspettata festa di colori, una “ricreazione” come ci si aspetterebbe solo dai comprimari francesi: e invece ecco che nella Scena d’atelier di Hekel i colori esplodono puri, brillanti, pronti a uscire dal cloisonné di contorno nero nel quale non vogliono restare intrappolati. Verde, rosa, ocra, gli stessi colori e lo stesso 1910 per i corpi di Kirchner: ma qui il contorno si fa agile, quasi stenografico, e delle figure non resta che un motivo sbiadito, un pretesto da riempire di personali umori. Alla fine del 1911 il Brücke, dalla città di provincia che era Dresda, si trasferisce blocco a Berlino, e per il sodalizio del gruppo è l’inizio della fine. Quella felice stagione che aveva visto nascere una comunità d’arte e di vita cede il passo ad un periodo in cui i singoli si distinguono maggiormente nei rapporti nelle soluzioni stilistiche. Se per gli anni di Dresda qualcuno ha parlato di uno “stile collettivo”, il brusco impatto con una Berlino carica di problemi sociali impone agli artisti una reazione che si fa necessariamente personale. Ma all'”inizio della fine” del gruppo non corrisponde una “fine” creativa: anzi, la reazione si traduce sulle tele con una veemenza ancor maggiore. Quei “moti profondi” e quel “significato fondamentale” si mostrano più acuti e drammatici; la svolta stilistica necessaria, porta ad un “ricreare” rinnovato dalla coscienza e dalla denuncia. Le opere esposte ne rendono fede, basti guardare i paesaggi di Pechstein, le figure di Rottluff o di Heckel: le forme rotonde dell’Atelier sono soppiantate da linee spezzate, le luminose stesure cromatiche da tinte cupe. Nella Bottega del barbiere forme, linee e volumi scheggiati sono in lotta, come gli stessi personaggi fatti di spigoli e angoli acuti. La svolta più drastica spetta al capofila: la deformazione di Kirchner si fa ancora più spinta sul tema della metropoli con la durezza del legno intagliato. Nelle xilografie la deformazione diventa asciutta e “astratta”; sulla matrice si opera per “via di togliere” e Kirchner e compagni non nascondono le ferite inferte a colpi di sgorbia, le incisioni capaci di strappar via le fibre lignee. L’affinità fra queste caratteristiche tecniche e il sentire degli artisti dà alla luce testi di una densità mozzafiato. La grafica si impone come un’ulteriore ricreazione che scandaglia i moti più profondi; non a caso nell’opera di taluni compare il sacro solo in una fase avanzata. La xilografia tratta dalla celebre Cartella su Cristo di Rottluff, presenta un volto nelle fattezze di una maschera negra: un paradiso perduto, un occhio chiuso come una ferita che non guarda più all’esterno, e la data scolpita in fronte: 1918. Si è già vista la guerra, si vede il “crepuscolo dell’umanità”. Ma sugli ultimi testi del Brücke, il testimone dell’espressione passa agli esponenti del “Blaue Reiter” (Cavaliere Azzurro), fondato a Monaco nel 1911, un cavaliere che si vuole annunciatore di idee nuove, di spiritualità. L’esposizione si riaccende di colore sulle tele che testimoniano il percorso astrazione crescente fino allo sfondamento nell'”aniconico”. Gli stilemi dominanti sono curvi, flessuosi, morbidi, liquidi: così per gli animali accoccolati di Marc, figure e le strade di Macke, “improvvisazioni” di Kandinsky: colori solari, testimoni un nuovo entusiasmo per vita. Dipinti tra Mornau e Monaco, questi quadri sembrano ignorare i testi taglienti nelle tele dei berlinesi. In realtà sono espressione dell’identico “mondo interiore”, che Brücke indagava. Mutuato dalla temperie del capofila, il gruppo del Blaue Reiter fa salire sugli scudi un anelito spirituale. Il nuovo “moto profondo” si libera dall’iconicità per tradursi in puro slancio, vitalità, leggerezza: ricreazione, dalla quale è bandita ogni forma di denuncia e di questione sociale. L’inquietudine sembra però riaffiorare nei dipinti di Jawlensky. La sua Ragazza con fiocco rosso ha la ieraticità di un’icona, ma nello stridente contrasto dei toni complementari si accende il dissidio. Dietro l’angolo sono pronti nuovi drammi e nuove discese agli inferi: le allucinanti vedute di Meidner, il mondo corrotto messo in scena da Grosz, le inquietanti ambivalenze di Otto Dix. Artisti che si pongono in polemica con gli esponenti del Brücke, criticando l’espressione troppo personale di un dramma che invece si impone in maniera collettiva; nonostante ciò, ne sono i prosecutori ideali. L’altalena dei “moti profondi” ripiomba nella notte e all’uscita dal Vittoriano la mente oscilla fra la serenità del primo periodo del Brücke, l’angoscia degli spigoli “scavati” a Berlino, i colori entusiastici e le forme morbide del Blaue Reiter, l’aspro della critica negli ultimi quadri. Un cortocircuito scorre però nello Sfruttatore di ragazze di Grosz e impone una pausa allo scorrere delle immagini: sul disegno spietato brillano il rosso, il giallo, il blu. In barba al tema cupo e notturno balza agli occhi la festa dei colori primari. Opposti e contrasti convivono, lottano e si risanano in un’ennesima “ricreazione” che si fa essa stessa oscillante sul pendolo delle soluzioni stilistiche… come su quello della vita. Gli espressionisti, 1905- 1920. Roma, Complesso del Vittoriano. Fino al 22003 (catalogo Mazzotta).

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