L’esodo di una famiglia istriana

Nel Giorno del ricordo delle vittime delle foibe pubblichiamo un articolo apparso su Città Nuova rivista del 2001 sulla storia di Lucia e Lidia, madre e figlia, arrivate a Roma nel 1947
Esule giuliana

ll quartiere Giuliano Dalmata mantiene ancora quasi intatta la sua fisionomia che lo fa sembrare un grosso centro di provincia d’altri tempi. Quasi un’isola in mezzo a palazzoni che popolano questa periferia romana, con al centro una chiesa dedicata a san Marco Evangelista, il protettore della Serenissima per eccellenza.

Come luogo della memoria, sorge all’inizio del quartiere un cippo marmoreo dedicato ai caduti delle foibe. Ed è in uno di questi condomini che sono andata a trovare nonna Lùcia. Proprio così, con l’accento sulla ù, nella calda parlata veneta, che lascia scivolare dolcemente le sillabe l'una sull’altra, come le onde della risacca.

È rimasto quell’accento, e quel dialetto, nelle conversazioni in famiglia, a ridare il sapore delle cose e degli affetti lasciati per sempre.

La signora Lucia Bonaparte – 94 anni, sei figli e dodici nipoti – e già bisnonna di ben dieci pronipoti. Sono ancora vivi nella sua memoria i ricordi di una vita certo non facile. La sua era un’agiata famiglia di commercianti, ben nota nei dintorni di Pola. «Mio padre – ricorda – è nato sotto Ceco Bepe (l'imperatore Francesco Giuseppe), ed io ho frequentato le scuole a Vienna. Poi, con la guerra del ’15-‘18, siamo diventati talian…». Ma è la terzogenita Lidia a ripercorrere per noi le tappe salienti di quell’interminabile odissea che dalla natia Pola ha portato la sua famiglia a Roma.

Era il febbraio del 1947, e Lidia aveva allora poco più di dieci anni. «Per me – dice – era quasi come un gioco, una gita piena di imprevisti, come eravamo soliti fare col papà, che era ferroviere. Ricordo che quella mattina pioveva, una di quelle piogge sottili e gelide che ti penetrano nelle ossa. Ma mamma e papà non erano allegri, ne cantavano le arie dell’Aida o del Rigoletto, come erano soliti fare durante le nostre scampagnate. Ci tenevano ben stretti tutti e cinque in quel calesse che papà aveva noleggiato per portarci al porto, perché la mamma non si stancasse. Era infatti in attesa del nostro sesto fratello, che sarebbe nato a Roma due mesi dopo. Anche il cavallo sembrava accorgersi che quello era un carico speciale. Sul selciato bagnato, i suoi zoccoli risuonavano mesti e cadenzati, come ad accompagnare un funerale. La nostra casa era lì, racchiusa tra i sedili di un calesse».

Nel porto c’era una nave che li avrebbe portati a Venezia. Dopo, avrebbero proseguito in treno. «Era una nave vecchia, squallida. Nelle cuccette, dure e fredde, c’era sparsa della paglia. Ricordo che papà e mamma piangevano, stretti in un abbraccio. Ma io allora non capivo. Ai miei occhi di bambina, tutto sapeva di avventura. C’era chi andava a Napoli dai parenti, chi a Fertilia in Sardegna, a dissodare le terre della Nurra. Ed a noi bambini non mancava la voglia di giocare, addirittura di scambiare piccoli doni o indirizzi con amichetti di viaggio. Ma nel salutarci, già da allora ci dicevamo addio: quando ci saremmo rivisti? Iniziava la diaspora del nostro popolo».

Era domenica, quando finalmente giunsero a destinazione. «Per prima cosa, ascoltammo la messa nella basilica del Sacro Cuore, accanto alla stazione».

A Roma, poi, li aspettava una nuova casa, promessa al papà dall’azienda dei ferrovieri. Così almeno sapevano. E invece… La città di allora mostrava le ferite aperte di una guerra perduta, e le lacerazioni profonde della lotta di liberazione. «Sicché noi eravamo presi per fascisti, solo perché non volevamo stare sotto Tito. Sta di fatto che, appena arrivati a Termini, ci fu detto che la casa non c’era più. Era stata occupata da un’altra famiglia…».

Trovarono rifugio, assieme ad altre centinaia di persone, negli ambienti della stazione. «Fu allestito un vero e proprio campo profughi. Noi dovevamo fare la fila con le gavette per ricevere il cibo. Ricordo che per vestirci ci mettevamo sotto le coperte. Troppo forte era la vergogna e l’umiliazione di dover vivere in mezzo a tanta gente estranea».

Cominciarono per il papà le affannose ricerche di un alloggio. «Un sacerdote amico di famiglia ci sistemò presso due conventi, uno maschile ed uno femminile. Il babbo con i due fratellini più piccoli dovette separarsi da noi. Stavamo insieme di giorno, ma la notte ognuno tornava al suo convento».

Nacque il fratellino. Finalmente, dopo alcuni mesi, venne loro assegnato un appartamento in piazza Bologna. I ragazzi crescevano, e lo stipendio del padre non bastava mai. «Cosi mia madre dovette accettare il portierato della casa dove vivevamo: per tutto quello che avevamo lasciato a Pola, non abbiamo ricevuto nessun risarcimento. Solo l’amore forte che ci univa ed una grande fede ci hanno aiutato a superare questo sentirci esuli in patria».

I ragazzi Bonaparte sono diventati adulti, ed ognuno ha preso la sua strada. Lidia, a 16 anni, ha incontrato Virgilio, un giovane romano. Si sono sposati qualche anno dopo. Sono ora nonni a loro volta. Ma nel 1951 è avvenuto un altro incontro che ha dato un senso profondo alla loro vita, aprendo gli orizzonti di una società rinnovata dal Vangelo. «È stato l’incontro con un movimento, i Focolari. In mezzo a questi nuovi fratelli provenienti da tante parti, abbiamo cominciato a sentirci cittadini del mondo. Cominciava ad acquistare un senso la nostra sofferenza».

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