L’esodo dei cristiani iracheni

I cristiani iracheni (e non solo) lasciano il Paese dove sono nati e dove il cristianesimo ha trovato casa fin dal I secolo. Il cardinale di Baghdad e patriarca dei caldei è intervenuto di recente per analizzare quanto sta succedendo e perché l’esodo prosegue, lento ma continuo.
cristiani iraqeni
AP Photo/Nabil al-Jurani

Il patriarca dei caldei e cardinale di Baghdad, Louis Raphael Sako, ha detto a fine novembre che l’esodo dei cristiani iracheni continua senza sosta, attualmente “al ritmo di 20 famiglie al mese”. Nel 1947 i cristiani rappresentavano il 12% della popolazione. Degli 1,4 milioni di cristiani (poco più del 6%) che vivevano in Iraq alla vigilia della seconda Guerra del Golfo (2003), oggi ne restano forse poco più di 300 mila. Non è superfluo precisare che si tratta di cristiani di varie confessioni e Chiese: oltre ai cattolici (che sono la maggioranza) di rito caldeo, siro, greco, armeno e latino, vi sono anche assiri, ortodossi ed evangelici.

I cristiani iracheni sono gli eredi della Chiesa mesopotamica sorta già nel I secolo dalla predicazione, secondo la tradizione, dell’apostolo Tommaso giunto qui dopo la caduta di Gerusalemme nel 70.

Dopo secoli di vita all’interno di un Paese a grande maggioranza islamica, che hanno visto alternarsi periodi di convivenza pacifica e di persecuzione, il momento critico che in certo modo ha dato il via alla recente diaspora dei cristiani è stato l’avvento dello Stato Islamico, che ha avuto un’anticipazione nell’attentato del 31 ottobre 2010 a Baghdad, nella chiesa siro-cattolica di di Sayidat al-Nejat,  Nostra Signora del Soccorso, in cui morirono 58 persone, compresi 3 sacerdoti e 46 fedeli, oltre ad alcuni poliziotti e terroristi, con oltre 70 feriti. Negli anni fra il 2011 e il 2014, a Mosul e nelle zone controllate dai jihadisti, i miliziani dell’allora nascente Stato Islamico contrassegnavano con la lettera Nun (N) le case dei cristiani: N come Nassarah (nazareni). Per poi scatenare contro di loro la strategia del terrore. Costretti a convertirsi all’Islam oppure pagare una tassa. O fuggire.

Nel 2014, con la proclamazione dello Stato Islamico, più di 100 mila cristiani della Piana di Ninive (Mosul) fuggirono in una notte (insieme ad altre minoranze perseguitate dall’Isis, come gli yazidi) abbandonando le loro case e dirigendosi verso Erbil, nel Kurdistan iracheno. Altri, numerosi, ripararono in Libano e in Giordania.

Dopo la sconfitta dello Stato Islamico nel 2017, sono stati quasi 60 mila i cristiani profughi in Kurdistan ad emigrare dirigendosi soprattutto verso Canada, Australia, Usa ed Europa. Pochi sono tornati nelle città e nei villaggi dai quali erano fuggiti. Dopo questi fatti, la diaspora non si è mai più arrestata e ha visto oltre 1 milione di cristiani iracheni lasciare il loro Paese. E fra i rimasti ce ne sono parecchi in lista d’attesa per andarsene, o attendono l’occasione per farlo.

Il patriarca Sako, nel suo intervento di fine novembre 2022, affronta i diversi fattori (sociologici, politici e ambientali) che spingono i cristiani iracheni ad abbandonare la terra dei loro padri. Nell’elenco vi sono l’instabilità politica e sociale, l’insicurezza, l’assenza di opportunità, le discriminazioni in ambito lavorativo e, in particolare, la quasi totale assenza di norme giuridiche che tutelino l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e che rispettino le legittime aspirazioni dei cristiani. Vi sono infatti troppe norme ispirate alla sharia islamica, o che ad essa rimandano direttamente, che obbligano i cristiani nell’ambito del diritto matrimoniale, delle successioni ereditarie o della custodia dei minori.

In un interessante reportage di A. Calianno pubblicato sulla rivista delle Missioni della Consolata (16 luglio 2022), un giovane iracheno che frequenta la cattedrale latina di Mar Youssef a Baghdad, racconta: «Non è facile essere cristiani qui. Non dico che viviamo degli episodi di razzismo direttamente, ma, ad esempio, se faccio domanda per un lavoro e c’è un candidato musulmano con la mia stessa preparazione, in questo caso sicuramente si preferirà lui. Oltre a questo, i ragazzi sono davvero pochi, moltissimi vanno via: in Kurdistan o magari in Europa. Ho tanti amici che sono via e mi raccontano come va lì. Non è che hanno una vita semplice, certo, le difficoltà si trovano in tutto il mondo, però sono liberi di professare la propria religione senza imbarazzo o discriminazione. I miei amici all’estero non sono giudicati per la propria religione, questa è una grande libertà che qui non è affatto scontata».

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