L’esempio di “Bisagno”
Poco dopo la fine della guerra, il 17 maggio 1945, Aldo Gastaldi, comandante della Divisione Garibaldi Cichero, scrisse così ai genitori di un partigiano caduto, Luciano Galfetti: «Col suo comportamento era stato così di esempio ai suoi uomini, che era riuscito ad infondere in essi il timore di Dio ed a farne dei cristiani, dei partigiani e degli italiani, che le popolazioni di questi luoghi stimavano profondamente».
Maria Bocci, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha così commentato, riferendosi al passo soprascritto: «Cristiano, partigiano, italiano. Se ci si riferisce a Bisagno, si dovrebbe forse invertire l’ordine degli aggettivi: cristiano e italiano, e dunque partigiano» (M. Bocci, Introduzione a M. Gandolfo (a cura di), Bisagno. La resistenza di Aldo Gastaldi, Itaca).
Questi tre aggettivi, in effetti, aiutano ad avvicinarsi alla straordinaria figura di Aldo Gastaldi detto “Bisagno”, perché riassumono ciò che egli rappresentò per i suoi familiari, amici, conoscenti, compagni di lotta e fratelli di fede: un fervente cristiano, dedito completamente alla causa del servizio d’amore, della patria, della giustizia e della libertà, anche in un contesto tragico come quello della guerra, senza alcun pregiudizio verso gli uomini, ma severo avversario di ogni forma di iniquità, di ingiustizia e di vigliaccheria. Così, in molti, a distanza di 74 anni dalla sua morte, hanno accolto con gioia l’annuncio della Curia genovese di avviare la causa di beatificazione del “primo partigiano d’Italia”.
Nato a Genova il 17 settembre 1921, nella tranquilla Granarolo, dalla cui radio il 25 aprile 1945 Paolo Emilio Taviani lanciò l’insurrezione generale, Aldo Gastaldi crebbe primo di cinque fratelli, con un senso della fede, della responsabilità e del dovere non comuni. Seppur in questo rigore, preteso, prima di tutto, verso se stesso, seppe essere una vera benedizione per chi gli viveva accanto; familiari e amici, soldati e partigiani. Il suo esempio e la sua testimonianza sapevano trascinare e infiammare chi viveva con lui perché viveva con autorità quella che professava.
Dopo essersi diplomato come perito elettrotecnico nel 1939, si iscrisse alla facoltà di Economia e commercio, mentre iniziò a lavorare nella Società San Giorgio. Deluso dall’indirizzo di studio, decise di passare a quello di Ingegneria per il quale era necessario il diploma di liceo scientifico. Mentre stava preparando la maturità scientifica, arrivò, nel febbraio 1941, la chiamata alle armi.
Nemmeno ventenne Aldo si arruolò, dapprima per l’addestramento, successivamente come sottotenente del XV Reggimento Genio nella caserma di Chiavari, dove seppe affinare le sue doti di comandante dedito ai suoi soldati, severo ma pieno di riguardi e cure, tanto da guadagnarsi sincera stima e gratuito affetto, anche durante i corsi che svolgeva come professore di radiotelegrafia: «Quando questo solerte ufficiale iniziò le lezioni, capimmo subito che avevamo trovato in lui non un semplice istruttore, bensì un padre e un appassionato, e quanto mai bravo, professore. Aveva un modo tutto suo particolare di insegnamento e mai gli accadde di dover ripetere la lezione perché un allievo non l’aveva capita. […] In quei pochi mesi […] sapemmo quanto valeva Aldo e quanto fosse amato da tutti i militari che lo conobbero. […] Sapeva farsi amare e obbedire» (Testimonianza dattiloscritta di Morandini, citata in Gandolfo (a cura di), Bisagno, op. cit.).
Dopo l’8 settembre e la spaccatura tra Repubblica Sociale Italiana e Regno d’Italia, anche Aldo visse il dramma della scelta: con chi stare? Il suo coraggio, il suo autentico patriottismo e il suo profondo amore per la libertà non lo fecero dubitare e decise per la Resistenza contro un nemico, quello nazifascista, che per lui significava soprattutto un metodo: quello della sopraffazione, dello schiacciamento ingiusto del prossimo, dell’abiezione morale e umana. Una scelta che non fu né affrettata né casuale, ma frutto di una vita di fede autentica, fatta di un rapporto con Dio vissuto nella preghiera e nella professione del cattolicesimo.
Così Aldo Gastaldi divenne “Bisagno” e si trasformò in leggenda. Fu l’unico ufficiale chiavarese a non consegnare le armi ai tedeschi e si recò lui stesso, rischiando la vita (per poco i tedeschi non lo uccisero con una sventagliata di mitra) per recuperare la stazione radiotelegrafica. Nell’ottobre ’43 si diede definitivamente alla clandestinità e, con il partigiano comunista Serbandini detto “Bini”, fondò la divisione Cichero, sulle alture di Chiavari, il cui famoso “codice” divenne un esempio luminoso per la Resistenza: «Il codice prescrive che il capo debba mangiare per ultimo, possa addormentarsi solo quando si è accertato personalmente che tutto funzioni e sia in ordine, abbia i turni di guardia più gravosi, che non si bestemmi, che non si molestino le donne, che non si requisisca senza pagare il dovuto, che si debba dividere con i compagni qualunque cosa si riceva» (D. Veneruso, La personalità di Aldo Gastaldi “Bisagno”, in Gandolfo (a cura di), Bisagno, op. cit.).
Durante la guerra di Liberazione, tuttavia, si inimicò alcuni vertici del Comitato di Liberazione ligure, soprattutto coloro che vedevano nella Resistenza un’occasione per fare carriera politica; come li definiva lui, «gente che nello stesso tempo confessa di lottare per la liberazione dell’Italia e premette che “prima della Patria c’è il Partito”» (M. Bocci, Introduzione, op. cit.). Gente che lui non esitò a denunciare e a correggere. Anche per questo restò sempre nell’ombra, non volendo per sé onori, ma cercando solo di ottenere tranquillità e un futuro sereno per gli uomini che gli erano affidati e verso cui si sentiva debitore di tanta stima e riconoscenza. Morì cadendo da un camioncino, in circostanze non del tutto chiare, il 21 maggio 1945, a Desenzano sul Garda, mentre stava accompagnando a casa alcuni di quei tanti soldati che lo avevano seguito.
Ecco chi era Aldo Gastaldi “Bisagno”, un eroe eccezionale nella sua normalità, da proporre e far conoscere ai giovani di oggi. Un uomo che seppe donarsi e riconoscere che l’amore per Dio è vero nella misura in cui si fa amore per il prossimo: «La mia mente non trovò nessuno sulla terra che potesse darle né tranquillità né giustizia. Trovai l’una e l’altra in Dio. Con lui ero arrivato perfino a constatare che la gloria terrena è molto effimera e passeggera, mentre la gloria di Dio è eterna» (Lettera ai familiari da Casale Monferrato, 6 luglio 1941).