L’esame

È stato un vero maestro di vita e di giornalismo.
Guglielmo Boselli

Il 6 novembre di dieci anni or sono ci lasciava improvvisamente Guglielmo Boselli – Guglia come lo chiamavamo familiarmente –, indimenticabile direttore del nostro periodico. Vogliamo ricordarlo proponendo stralci di un suo articolo-testimonianza apparso su “Città Nuova” n. 8 del 1959: un episodio del tempo in cui era studente di architettura al Politecnico di Milano.

 

Oggi, giorno delle Ceneri dell’anno 1952 (…), mi sono consacrato a Dio; e mai come ora mi sento intonato col mio tempo. Avevo quel che umanamente altri potrebbero desiderare, e l’ho lasciato; avevo la stima di tanti, e l’ho lasciata; avevo dinanzi un avvenire brillante, e l’ho lasciato. E – in piena contraddizione con la noia del mondo che mi circonda, con l’angustia delle anime che s’aggrappano ancora alle ombre – sono felice, immensamente felice, d’una felicità che molti non sanno, che non immaginano neppure. (…) Non potrò dirla: è indicibile, è vero: ma potrò darla, darla a tutti quelli che la vogliono. E questo mi basta.

 

Non è, la mia, una consacrazione clamorosa: pochi avranno il tempo di scandalizzarsene, i più non lo sapranno neppure. Ma non è per me che mi son consacrato: è per Dio, è per gli altri, è perché si realizzi nel mondo il Testamento di Gesù, è perché tutti siano una cosa sola. Non ha dato a me il Signore una divisa, né un distintivo, né forme che mi facciano apparire diverso dagli altri uomini che si chinano con me ogni giorno, a guadagnare il pane con il sudore della fronte.

Sarò uno di loro, come prima, perché il tesoro che ho dentro non resti da loro separato. (…)

 

15 maggio. (…) Oggi a mezzogiorno, alla mensa studenti, veramente quel chiasso, quel groviglio di sollecitudini, di vanità, di esigenze insoddisfatte che trasparivano dai discorsi all’intorno, mi davano un senso di nausea.

Quando poi, rientrato nella mia cameretta, ho affrontato il calcolo di una struttura che non riuscivo a risolvere, è aumentato il disagio interiore: come d’uno che naviga in un mare in burrasca, e gli pare che il porto sia sempre più lontano.

Eppure, ieri sera, quando mi son trovato con gli amici che han scelto il mio stesso ideale, il mare dell’anima non era agitato: anzi era tranquillo e riposante: tutto aveva sapore di Cielo. C’era l’atmosfera di letizia che la liturgia della Chiesa canta nel salmo: «Com’è bello e giocondo abitare, fratelli, in unità».

 

Ora ero solo… Ma no! Qualcosa di dentro ha reagito a quel pensiero, con una forza inattesa. Ho aperto il Vangelo. Raccontava dei discepoli, alle prese, di notte, con la tempesta sul lago di Tiberiade. Dalla barca intravedono un fantasma che cammina sulle acque. Terrore… Ma ecco quella figura che parla, con una voce forte, più forte del vento che scuote la vela: «Non temete, son io».

Ho richiuso il Vangelo: e la gioia che provai il giorno in cui mi son consacrato, è ritornata a cantare nell’anima (…)

 

22 giugno. Questa mattina, all’alzarmi, mi turbinavano in testa formule su formule: avrei desiderato tanto tempo
per ripassare un po’ tutto. Veramente avevo cercato, in queste settimane, di fare la mia parte nel prepararmi, ma l’esaurimento crescente provoca lacune improvvise di memoria.

«Non so come andrà oggi», pensavo; e pian piano il panico dell’esame prendeva consistenza. Ma allorché sono stato in chiesa, a tu per tu col re dell’universo, le angustie sono svanite. È tornata la sua pace. (…).

 

Ecco: che resterà in eterno di questa giornata? Non il voto che prenderò, non la stima del professore, né quella dei colleghi, e neppure la gioia della riuscita, e neppure il patire per un eventuale fallimento: resterà solo – piccolo o grande come sarà – l’amore con cui riempirò le mie risposte e il mio silenzio, con cui donerò quello che ho, semplicemente, quello che so, umilmente, a Gesù nel professore. (…)

Quando mi son trovato davanti alla lavagna, con lo schema di una struttura da risolvere disegnato su di essa, è avvenuto ciò che avevo previsto. Non ricordavo più nulla: mi rendevo conto che doveva trattarsi di un problema facile, che forse tante volte – nell’esercitarmi – avevo risolto. Ma ora non mi veniva un’idea, un barlume di luce, una linea da seguire.

«Ecco, ci siamo: sei tu, Signore, che mi prendi in parola». E mi preparavo a gioire di quel po’ di dolore che con lui potevo dividere mentre mi accingevo ad accogliere la fatale sentenza: «Riprovato; torni un’altra volta». (…)

Alle altre domande ho saputo rispondere: e a un certo punto sembrava che l’esame fosse terminato. Spontaneamente è subentrata in me la tentazione di adagiarmi su quella speranza. «È fatta – mi dicevo – è finita: puoi metter da parte la croce».

 

Il professore ha preso in mano il mio libretto universitario: lo ha guardato, si è chinato come per scrivere il voto; poi, improvvisamente, mi ha fatto un’altra domanda: una domanda a cui non sapevo rispondere.

Ma non questo mi ha fatto soffrire. È stata un’altra cosa: l’esatta sensazione d’aver smesso d’amare, d’essermi scaricato della croce, d’aver tolto l’olio dalla lucerna. (…)

Mi sono aggiornato all’istante: lieto della nuova sospensione, pronto ancora alla bocciatura… «Mah, questa parte, nessuno sa dirmela…», ha commentato il professore. E ha segnato un voto favorevole.

 

Fuori dal Politecnico, mentre tornavo in bicicletta, tra una pedalata e l’altra, sgusciando in mezzo al traffico di gente indaffarata, avrei voluto cantare (…). Perché oggi, per la prima volta, ho sostenuto un esame davanti al mio Dio. E so che anche lui, malgrado le mie debolezze, ha dato voto favorevole al primo, piccolo esame fatto per l’eternità, da me, povero studente.

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