L’errore (rimediabile?) dell’editoria industriale

Quando Osip Mandel’s?tam, uno dei massimi poeti russi, e non solo russi, del Novecento, fu arrestato e deportato verso Voronez?, dove morì nel 1938, compose dei versi di affermazione del valore immortale e intramontabile della libera poesia, in cui si chiese cosa mai avessero creduto di ottenere i suoi carnefici, dal momento che le sue labbra continuavano a parlare. A nessuno! Perché anche quando parlano a nessuno, i versi dell’intramontabile poesia sono reali, mentre le orecchie chiuse e le mani adunche degli aguzzini sono irreali. Non è il peso, la pressione, l’urto della potenza materiale a decidere della realtà; ma il suo significato. Ce lo ha ricordato in due libri che non periscono anche l’intelligente moglie del poeta, Nadez?da (L’epoca e i lupi, recentemente ristampato, e Le mie memorie; li raccomando caldamente al lettore). Ma perché parlo dei Mandel’s ?tam? Per niente che li riguardi direttamente, ora; ma perché mi appaiono (e ugualmente potrei dirlo di Pasternak, dell’Achmatova, ecc.), oggi, una potente realissima metafora del nostro, non del loro, mondo di totalitarismo culturale. Essi soffrivano l’ignobile mortificazione dei corpi e delle libertà fisiche, noi, senza accorgercene – e questo è un guaio ben più insidioso e stravolgente del loro – siamo avvelenati dalla nichilistica indifferenza del pensare e del dire e dello scrivere, che passa abusivamente sotto il nome di pluralismo, tolleranza e libertà di espressione; abusivamente, perché qui non è in gioco la costituzionale libertà, in cui ciascuno dice e pubblica ciò che vuole, rispondendone alla legge e forse alla propria coscienza; è in gioco la possibilità stessa di non uscire omologati, uguali e nonpensanti dalla catena di montaggio del lettore alla moda per l’editore alla moda, ovvero del non-lettore per il non-libro del non-editore. E siamo arrivati al punto effettivamente dolente. Le proporzioni, la logica e il meccanismo industriale su cui ormai si regge o cade la grande editoria, hanno ottenuto l’unico effetto di equiparare di fatto la cosiddetta industria culturale – nome orrendo e contraddittorio – a qualsiasi altra industria, cioè il libro a una scarpa o a un surgelato. E qui non si tratta di snobistica superiorità, ma di vitale specificità: se il libro è uguale a una scarpa o a un surgelato non c’è ragione di leggerlo se non indossandolo o mangiandolo: esattamente ciò che fa il povero pubblico massmediatico manipolato a morte (mi si scuserà l’espressione, del tutto realistica) dall’industria stessa, spinto qua e là a credere di nutrirsi, in realtà drogandosene, di non-libri divenuti forzosamente best-seller vuoti come gusci vuoti (e perciò risuonanti di tutti i rumori). Lo dimostrano recentemente non-libri come Il nome della rosa di Umberto Eco e, a livello più basso, il Codice Da Vinci di Dan Brown. La grande industria culturale, e parlo qui di quella specificamente letteraria, non può, cioè, oggi, non dico pubblicare libri, perché qualche libro lo pubblica, in mezzo a tonnellate di carta inutilmente e dannosamente stampata; ma non può, per le ragioni suddette, trattare un libro come un libro, perché il libro industriale funziona solo se sembra, e indubbiamente appare, una scarpa o un surgelato, e come tali viene consumato. Mi si dirà che ho un’opinione troppo negativa dell’attuale pubblico della letteratura. Purtroppo sì. Una lunga esperienza e la conoscenza di certi meccanismi editoriali mi dicono che quel vero pubblico non esiste più, che ne sopravvivono poche migliaia di isolati e irriducibili lettori-martiri inutilizzabili dal mercato e sfuggenti ad esso. Il cosiddetto pubblico della letteratura, affatturato da mass media e premi letterari affatturati e sospinto da mode costruite, è solo un povero gregge di consumatori smarriti, che cerca sicurezza appoggiandosi al libro che non si può non leggere. Infatti i titoli stessi diventano sempre più pubblicitari e pruriginosi (a volte irriferibili, verificare per credere). Il fatto è che, come accade nei grandi meccanismi autoalimentati, c’è un punto di nonritorno, in cui non si può più fermarsi e smobilitare, e da cui si diventa compiutamente schiavi della ormai irriformabile logica dell’insieme. È esattamente questo l’errore dell’editoria industriale: diventare, nel suo meccanismo produttivocommerciale, irreversibile. Al contrario, l’unica salvezza dell’editoria, se vuole essere e promuovere cultura, è non raggiungere mai le dimensioni del non-ritorno, non essere mai costretta a pubblicare; restare revocabile nelle sue scelte; essere non per tutti-massa. Questo significa avere un’anima, fare del libro non una scarpa, un surgelato, un feticcio, ma un libro: realtà oggi oscurata, improbabile, falsificata da veicoli pubblicitari di ignoranza, supponenza, arroganza, e infelicità mascherata da sicure emozioni per il non-lettore.

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