L’errore presuntuoso di colpire la formazione professionale
Esiste un mondo dell’educazione svolta da “privati” che è molto lontano dall’immaginario comune fatto di scuole elitarie accessibili ai ceti sociali benestanti. Un lavoro quotidiano di lotta alla dispersione scolastica e di servizio pubblico svolto in quella formazione professionale che vede, da oltre un secolo, in prima fila il movimento salesiano nelle sue diverse espressioni. L’innegabile tendenza nazionale a svalutare il lavoro manuale si scontra con la realtà di imprese manifatturiere che, nonostante la crisi, non riescono a trovare tecnici specializzati, mentre i centri qualificati vivono in stato di precarietà strutturale. Per denunciare una «disattenzione politicamente pianificata» verso il sistema dell’istruzione e formazione professionale e rilanciare uno dei temi strategici del lavoro, i salesiani e le salesiane impegnate su questo campo hanno lanciato, assieme ad Acli e Compagnia delle Opere, un manifesto in 10 punti dal titolo quanto mai significativo: “Perché nessuno si perda”.
Cerchiamo di comprendere meglio il contesto da cui nasce l’appello con Giorgio Sbrissa, direttore generale dell’Enaip Veneto, impresa sociale radicata sul territorio di una regione fortemente produttiva, che aderisce all’ente nazionale delle Acli per la formazione professionale.
Perché siete arrivati a lanciare questa campagna di sensibilizzazione e raccolta firme assieme agli altri maggiori enti di formazione professionale a livello nazionale?
«Da molto tempo, anche con qualche ragione, la “formazione” viene associata a comportamenti poco trasparenti se non truffaldini e, invece, bisogna stabilire alcuni punti fermi. L’Istruzione e formazione professionale (Lefp) è un percorso scolastico con dignità pari agli altri che prevede l’assolvimento dell’obbligo scolastico, ma che, nel nostro Paese, è stato per molto tempo bistrattato da un’idea riduttiva di cultura che soffre di amnesia».
Cosa ci siamo dimenticati?
«Un dato elementare, e cioè che l’Italia è un Paese manifatturiero ed è grazie alla trasformazione dei materiali che abbiamo potuto generare quella ricchezza che ha garantito i nostri livelli di welfare. Oggi molti rinnegano questa realtà, al punto che fare il “metalmeccanico” – o meglio lavorare con le mani – è percepito in modo dispregiativo. Quello che noi gridiamo con forza è, in primis, la dignità del lavoro in tutte le forme, compresa quella del lavoro manuale. L’istruzione e la formazione professionale è questo: imparare un mestiere. Perciò nei percorsi di formazione la didattica è centrata sull’attività di laboratorio, dove le ragazze e i ragazzi possono sperimentare concretamente esperienze di manualità e dove l’apprendimento avviene con modalità diverse da quelle che avvengono normalmente negli altri percorsi scolastici».
E non è questo un motivo di pregiudizio?
«È la conseguenza di un conflitto mal posto tra “intelletto e mani”. Ad esempio si riparano i motori o si fanno impianti elettrici, ma le curve di potenza di un motore, l’elettronica stessa di un'autovettura o un utensile che si muove velocissimo in tre assi richiedono conoscenze matematiche e fisiche. Semplicemente tali conoscenze sono diversamente applicate rispetto a percorsi teorici e, ripeto, diverse sono le modalità di apprendimento. Sbagliare una domanda di un test è molto diverso dallo sbagliare un manufatto di ferro. Nella Lefp, in laboratorio, si può sbagliare e dallo sbaglio nasce l’apprendere. Le conseguenze in questo caso sono dover rifare tutto».
Ma il percorso professionale non è tale da chiudere altre prospettive?
«Al termine del triennio, i ragazzi possono continuare il loro percorso anche fino alla laurea o meglio nei percorsi di istruzione tecnica superiore, ma c’è un altro aspetto ormai riconosciuto da tutti: con corsi di Lefp la dispersione scolastica è molto bassa. In alcune regioni del Nord gli obiettivi concordati con la Comunità europea sono già stati raggiunti o sono raggiungibili. Parliamo di dispersione prossima al 10 per cento. Ragazze e ragazzi che hanno avuto percorsi scolastici non positivi vengono recuperati e viene data loro la possibilità di frequentare la scuola, assolvere l’obbligo e infine lavorare. Sempre al Nord, il 70 per cento dei giovani, a un anno dal termine del percorso, trova occupazione».
Dove iniziano i problemi?
«Il futuro del sistema della formazione è incerto. Assistiamo a una riduzione di risorse e a un allungamento dei pagamenti da parte delle Regioni che impongono ormai impossibili sacrifici agli enti. Negli ultimi anni il sistema è stato finanziato dagli stessi enti erogatori del servizio a costi non più sostenibili e molti sono gli enti che hanno già chiuso o che hanno “delocalizzato”, decidendo di continuare in Africa o in America Latina. Eppure il costo sostenuto per ora/allievo della scuola statale è quasi il doppio di quello del sistema della Lefp, pur di fronte a differenza di dotazione di laboratori tutta a favore del sistema professionale. Con la metà del costo, il sistema Lefp riesce comunque a garantire il tutoraggio e lo stage di circa 4 settimane all’anno. C’è da considerare che la Lefp è attuata in Italia, per la grande maggioranza, da enti di ispirazione cristiana, da “privati”, cioè, con una forte motivazione sociale».
Ma l’apprendistato non potrebbe essere la soluzione del problema?
«Mediaticamente l’apprendistato viene evocato come una o forse l’unica soluzione per poter entrare nel mercato del lavoro. Si fa l’esempio della Germania, ma si tratta di una situazione diversa. In quel Paese l’apprendistato è svolto in meno del 25 per cento delle aziende, che sono, per lo più, di notevoli dimensioni e investono nella formazione interna, mentre gli enti locali impongono selettivi sistemi di controllo e direzione. In Italia, dove esistono poche aziende di notevoli dimensioni, sono i centri di formazione che costituiscono laboratori all’avanguardia che svolgono il medesimo servizio alla tedesca per le imprese del territorio. Non serve inventarsi nulla di nuovo perché esiste già e funziona».
Quale rapporto c'è tra mancata formazione e crisi economica?
«La formazione non è assolutamente il rimedio al lavoro che oggi non c’è. Il lavoro si crea producendo beni e servizi che si vendono sul mercato. C’è un fatto poco noto: i ragazzi che vengono da percorsi di Lefp sono, se paragonati ai loro coetanei, fra le persone che hanno la più alta propensione al rischio nel fare impresa. A partire dagli anni Cinquanta vicino ai nostri centri di formazione sono nate moltissime piccole imprese: da qui è nato il nostro sistema industriale. Oggi è ancora così. Circa il 20 per cento dei ragazzi della Lefp, dopo un breve periodo di lavoro subordinato, fonda un’impresa. Parliamo di migliaia di piccole aziende, per lo più artigiane. I ragazzi hanno il sapere nelle loro mani e non temono di metterlo in gioco, anche perché hanno maturato un forte senso di riscatto sociale».