L’eredità di Marco Pannella

Il post scriptum della lettera a papa Francesco diventa come il testamento della sua battaglia a favore dell'uomo sconfitto e umiliato
Pannella

L’incensazione postuma di Marco Pannella, come accade in queste circostanze anche con altri personaggi contradditori, suona sempre generosa anche se giusta, perché si vede la persona con un distacco maggiore dai suoi pregi e limiti e si esalta il nucleo portante del bene che ha fatto.

 

In molto del suo impegno politico non è difficile ravvisare una logica evangelica, come contro la pena di morte, lo sterminio della fame nel mondo, la vicinanza ai carcerati. In altre, nella pur giusta battaglia per le libertà, contro ogni divieto, se non quello imposto dalla coscienza, una deriva del pensiero libertario che vede anche nell’aborto un diritto.

 

Per il cristianesimo solo l’amore rende veramente liberi, non ogni pulsione, diritto individuale, umanamente conseguibile. La sua storia ci interroga sul significato della vera libertà, del libero arbitrio, del limite della creaturalità. La sua è stata una costante ricerca della verità, contro ogni contraddizione della politica, del doppio binario, della doppia vita, “di far tutto a gloria di Dio” ‒ disse una volta in una tribuna politica all’on. Giulio Andreotti ‒ “e così giustificare ogni comportamento, fosse anche un omicidio”.

 

Alla fine contano i fatti. I soldi fatti investire dall’Unione europea e dal governo italiano, dopo anni di lotta, per placare la fame nel mondo. La sua tenerezza per la carne martoriata, per gli ultimi che ritorna in una lettera dettata ad una sua collaboratrice indirizzata a papa Francesco e firmata, in calce, con la sua firma tremula.

 

«Caro papa Francesco, ti scrivo dalla mia stanza all'ultimo piano – vicino al cielo – per dirti che in realtà ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa. Questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano». Alla fine i saluti sono scritti in maiuscolo: «Ti voglio bene davvero, tuo Marco».

 

Un post scriputm diventa il suo testamento. «Ho preso in mano la croce che portava mons. Romero, e non riesco a staccarmene». Era la croce che porta oggi al collo monsignor Paglia che lo ha accompagnato, andandolo a trovare una volta a settimana, nell’ultima parte del viaggio della sua vita. Croce che diventa simbolo dell’uomo sconfitto, umiliato, abbandonato che, inconsciamente, ha sempre cercato di alleviare nelle sue battaglie politiche.

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