L’eredità della nonna

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Quando nacqui, i miei genitori vivevano a Roma, mentre mia sorella ebbe in sorte di nascere nella città austriaca di Salisburgo, come Mozart. Infatti l’irrequietezza di mio padre lo spingeva, in quegli anni, a viaggiare continuamente. Così, appena nato, fui affidato ad una balia in Ciociaria, e, una volta svezzato, alla mia nonna materna. Fu una fortuna per me: nonna Livia, infatti, mi voleva un gran bene e così anche gli zii Pietro, Giovanni e Lionello-Volturno, chiamato brevemente Nunno, e la zia Lina, vivacissima, che mi portava a tutte le feste della contrada della Chiocciola (mia madre e la sua famiglia di origine erano di Siena). Sentirsi amato, e anche un po’ viziato, è forse ideale per un bambino, e così vissi fino a sei anni quando tornai a Roma anche per frequentare le elementari. Inizialmente fu un trauma: arrivai di sera, e tutte quelle luci mi disorientarono. Soprattutto i lampi che scaturivano dagli archetti dei tram e lo stridore sulle rotaie e tutte quelle automobili. Quando attraversai il Tevere, esclamai: Che marone! . Mi parve infatti un vasto mare. Passai così dalla semplicità di Siena, dove la vita si svolgeva soprattutto per le strade raramente attraversate da qualche automobile, ad un ambiente borghese. Il nostro appartamento di Via Dandolo era in parte riservato allo studio di papà, avvocato, per cui quando lui era intento al suo lavoro, parlavamo sottovoce per non disturbarlo. Papà non era certo cattivo, ma indubbiamente autoritario e capace di arrabbiarsi per un nonnulla. Quanto a me mi sentivo in gabbia, tradito, rapito dal paradiso della mia prima infanzia. Per fortuna mia sorella Carla, di tre anni più grande di me, mi spiegava il comportamento cui dovevo adeguarmi e mi era complice quando in casa arrivavano dolci portati da qualche cliente di papa. In viale Glorioso (quanta ironia in quel nome!) iniziai a frequentare la prima elementare e, il primo giorno, piansi. Mi sentivo un immigrato: parlavo un toscano accentuato e non conoscevo nessuno. Addio allegra brigata dei piccoli contradaioli di via San Marco! Correre per la strada qui era proibito, sconveniente e pericoloso, e così pure cantare. Qui l’unico gioco consentito era quello del meccano: piccole costruzioni allestite avvitando listelle metalliche fra loro; in silenzio. Mia madre Giuseppina, detta Fina, giocava alla signora: era sempre elegante come si conveniva alla moglie di un professionista e per di più marchese salernitano primogenito. La nostalgia di Siena, della nonna, degli zii, dei compagni di giochi, me la sono nutrita un po’ sempre. Mio padre era ateo: era stato educato in un collegio di religiosi che, cercando di domare il suo caratteraccio a suon di bacchettate, avevano suscitato in lui un rifiuto della religione che gli durò per novantaquattro anni, fino alla sua morte. Mia madre si occupava di organizzare ricevimenti e, col suo carattere piacevole e comprensivo, mitigava quello dello sposo, sempre pronto al litigio; alle pratiche religiose dedicava scarsa ed episodica attenzione. Così, a poco a poco, anch’io persi interesse per la fede, occupato a difendermi in un ambiente nel quale faticavo ad integrarmi. Quando, a trent’anni, per amore della mia fidanzata, mi riavvicinai ad un ambiente religioso, scoprii la realtà di un Dio che mi amava e che poteva colmare quel vuoto che mi trascinavo dietro da tanti anni. Mi sentii accolto ed amato da persone che non conoscevo e che osservavo con una certa diffidenza. Fino a quei giorni, pensavo che la mia fidanzata fosse un residuo di anime religiose non più esistenti. Come diceva uno dei miei nuovi amici, credevo che i cristiani se li fossero mangiati tutti i leoni. Invece scoprivo che ce n’erano ancora, e pieni di quella gioia che avevo sperimentato nell’infanzia. Così, dopo sette mesi di tentativi e di fallimenti, mi arresi: volevo essere cristiano. Solo alcuni anni più tardi mi resi conto che, fra i motivi di nostalgia che mi legavano a nonna Livia, c’erano quelle funzioni religiose alle quali mi conduceva ogni sera nella chiesa del Carmine di Siena. Quelle preghiere corali che esprimevano una religiosità semplice quanto sincera, quei canti popolari in un latino per me incomprensibile, ma affascinante, facevano parte non marginale di quel paradiso perduto che avevo rimpianto per tanti anni e che ora ritrovavo in una comunità profondamente innestata nella Chiesa cattolica. Grazie, nonna!

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